Il calcio finisce in due titoli di testa di tutti i telegiornali. L’eliminazione dell’Italia dalle qualificazioni mondiali e la bravata di quell’idiota che a Marzabotto, per festeggiare un gol, celebra il fascismo con tanto di maglietta e saluto romano, producono immagini e sentimenti che si sovrappongono in modo sinistro. E’ questo il pallone che ci meritiamo insieme all’apocalisse evocata dall’ormai ex presidente Tavecchio che ha nel cognome la sintesi di un avvertimento.
Sessanta anni fanno due generazioni abbondanti, il che vuol dire milioni di italiani che non hanno mai nemmeno immaginato un’estate con i Mondiali senza l’Italia, senza le grigliate dopo le partite, senza le bandiere tricolori riscoperte una volta ogni quattro anni ed esposte sui balconi come a voler affermare, almeno nel calcio, quel desiderio di appartenenza che è sempre più sfumato e confuso nella vita di tutti i giorni.
Sessant’anni fa fu l’Irlanda del Nord a sbattere fuori gli azzurri imbottiti di oriundi, dal brasiliano Da Costa agli uruguagi Ghiggia e Schiaffino che erano stati campioni del mondo otto anni prima con la maglia della “celeste”, nella notte dei suicidi al Maracanà. A pensarci bene, il fattore oriundo ha pesato anche stavolta se contro i ruvidi svedesi, che a quelli del’58 avrebbero a stento portato le valigie, il povero “Sventura” ha pensato bene di affidare le chiavi del gioco al brasiliano Giorginho. Gli errori del tecnico, in evidente crisi confusionale, lasciano comunque il tempo che trovano. La Nazionale è una squadra modesta non da oggi: dal trionfo del 2006, ha incasellato parecchie magre senza mai preoccuparsi di mettere mano alle riforme. E’ vero, Totti e Del Piero sono forse stati gli ultimi esponenti di una classe in estinzione, ma il discorso vale per tutti, non solo per l’Italia che ha il diritto di commuoversi per le lacrime di Buffon, ma non può nascondersi l’assoluta mancanza di progettualità.
E’ ora di cestinare le angosce svedesi per ricostruire dalle fondamenta, cominciando a ridurre a 18 le squadre di un campionato che non può permettersi squadre che perdono 12 partite su 12. Dal rilancio dei vivai alla costruzione di nuovi stadi di proprietà dei club, c’è tanto da fare come nel 1958 dopo il crac di Belfast. Da quella disfatta, se vogliamo provare a credere a Vico, sbocciarono i favolosi anni 60. Cambiali a gogò, l’Olimpiade romana – oggi respinta -, le lavatrici e i frigoriferi invece dei telefonini. Coraggio, gli svedesi in fondo restano pur sempre dei fiammiferi.
Enrico Maida