Ad ogni inciampo della Juve, torna in discussione Andrea Pirlo e la scelta di promuoverlo alla guida della Juve dopo l’esonero di Maurizio Sarri. Il popolo bianconero esprime così la grande contraddizione di queste stagioni piene di successi: da un lato, il desiderio di ampliare la superiorità domestica, dall’altro l’insoddisfazione per il gioco, considerato poco adeguato per raggiungere finalmente il primato europeo. E’ stato così anche in passato. Alle rivoluzioni, che comportano di per sé rischi e cadute, la Juve e la maggioranza dei suoi sostenitori ha sempre preferito il mantenimento della tradizione. Le rivoluzioni hanno riguardato la scelta degli allenatori, non il gioco. Mezzo secolo fa, nella sorpresa generale, Giampiero Boniperti puntò su Armando Picchi, il capitano dell’Inter herreriana. Picchi era partito bene, ma nel febbraio del 1971 si arrese al cancro, che in tre mesi lo portò via. Boniperti lo sostituì con Cestmir Vycpalek, che vinse i primi due scudetti del ciclo aperto dall’ex campione diventato presidente. Anche Vycpalek fu una decisione controcorrente. Detto tra parentesi, quella Juve di inizio anni Settanta è stata una delle più belle sul piano estetico, ricca di fantasia e qualità, giovane, piena di campioni che finirono tutti in Nazionale, da Bettega a Causio, da Anastasi a Capello, e più tardi Scirea, Cabrini, Tardelli, Gentile, per tacere di Zoff, prelevato dal Napoli. Boniperti continuò a stupire la platea, quando per sostituire Carlo Parola convocò il giovanissimo Giovanni Trapattoni, che gli regalò i primi trionfi internazionali, a cominciare dalla coppa Uefa del 1977, l’unica coppa vinta da una squadra tutta italiana (all’epoca, il campionato italiano era vietato agli stranieri). Più tardi, ancora Boniperti scelse Dino Zoff per sostituire Rino Marchesi, che era stato chiamato a rilevare Trap. Dunque, tecnici alle prime armi, ma poche novità nel gioco, ancorato alla scuola italianista: nessuna pretesa di spettacolo, il risultato prima di tutto, la certezza che vincere sia l’unica cosa che conta. E’ stato così anche dopo Boniperti. E con il giovane Agnelli, che dopo la fallimentare esperienza di Gigi Del Neri, affidò il rilancio ad Antonio Conte e la prosecuzione ad Allegri. Tutto questo fino a due anni fa.
Eliminata dall’Ajax dei ragazzini, tra i quali il diciannovenne De Ligt, la Juve e il suo presidente cambiarono rotta. Ogni tentativo con Pep Guardiola si rivelò inutile. Puntarono su Sarri, strappandolo al Chelsea, senza peraltro dargli carta bianca. Una rivoluzione a metà. E, nonostante l’immancabile scudetto (il nono consecutivo), Sarri fu messo alla porta. I suoi metodi non piacevano, così come le sue richieste di avvicendare molti giocatori, soprattutto a centrocampo. Il collega Roberto Beccantini, preso atto che Sarri aveva rinunciato al proprio gioco adeguandosi alla realtà torinese, lo ribattezzò “C’era Guevara”. Una delusione per chi conosceva il tecnico toscano. Sarri aveva perduto le peculiarità con le quali aveva scalato, dopo una lunga gavetta, il vertice del calcio italiano.
Da Sarri a Pirlo, un altro bel salto. Pirlo ha idee e capacità, sogna un calcio di possesso e fantasia, ha un eccellente rapporto personale con Guardiola, ma si scontra con due problemi. Il primo è la rosa di cui dispone, non del tutto attrezzata per realizzare il suo progetto tecnico. La seconda è l’umore popolare, e qui si torna al punto di partenza: la voglia, talvolta la pretesa, di continuare a vincere e contemporaneamente il sogno di essere protagonisti in Champions League, senza invidiare né il Manchester City, né il Bayern, ovvero le squadre che in questo momento sembrano le favorite. Pirlo si è adattato: contro la Roma, ha vinto in contropiede lasciando agli avversari il controllo del gioco, viceversa a Napoli, dove credeva ragionevolmente di sfruttare le assenze e le debolezze di una squadra in difficoltà, ha imposto il gioco senza tuttavia cavare dal forcing neppure il gol del pareggio. E in questa partita sono riemersi i limiti di qualità e personalità del centrocampo, che negli anni si è impoverito. Il quadrilatero Marchisio-Vidal-Pirlo-Pogba era di un’altra categoria. L’infortunio di Arthur ha privato la Juve del suo miglior palleggiatore, la coppia Bentancur-Rabiot non ha funzionato. L’uruguaiano dà il meglio di sé davanti alle retrovie, il francese è molto anarchico, e difatti il ct Deschamps, che pure lo ha rivoluto in nazionale, lo impiega come laterale nel suo centrocampo a tre. In mezzo, no. Non ha quel che si chiama senso tattico.
Insomma, mentre ricomincia la Champions League con gli ottavi di finale, la rivoluzione della Juve sembra essere ancora una volta una rivoluzione a metà. Ma, comunque finisca la stagione, Pirlo merita di restare, a patto che – compatibilmente con le disponibilità del club, danneggiato come tutti anche dalla pandemia – il prossimo mercato gli assicuri giocatori adatti a fare il suo calcio. Senza contare che il futuro di Ronaldo è tutto da scoprire. E anche questo orienterà le mosse della Juve.
Enzo D’Orsi (foto tratta da Eurosport.it)