“La societé dopée”: les sponsor responsable? È il titolo del saggio scritto dai francesi Jean Francois Bourg e Jean Jacques Gougnet che sta accendendo una interessante discussione nel paese transalpino. Ma ancora più inquietante è il sottotitolo del volume: “Si può lottare contro il doping sportivo in una società di mercato?”.
Di certo negli anni Settanta l’entrata delle sponsorizzazioni nel mondo dello sport è stata una vera rivoluzione. I campioni hanno sempre attirato denaro, ma un tempo accettarlo era quasi un peccato. Secondo la mitologia il primo “sponsorizzato” fu Achille, la cui madre si rivolse a Vulcano affinché forgiasse la spada per uccidere Ettore. La prima forma è stata il mecenatismo. Si investiva nello sport per passione più che per un effettivo ritorno e si cominciò con i Giochi dell’Antica Grecia: i vari reggenti delle polis permettevano ai loro campioni di allenarsi a tempo pieno per portare onore e immagine alla città stessa.
Nell’era moderna la prima notizia certa risale al 1910 e pure qui il primo passo è stato effettuato negli Stati Uniti, quando il presidente della Gillette (rasoi e lamette) ammise di operare sotto diverse forme nel campo dello sport. Ma solo nel 1935 ci fu la prima sponsorizzazione ufficiale, a una trasmissione sportiva di una radio locale.
Sottobanco comunque è sempre corso denaro dando luogo anche a squalifiche clamorose, come quelle dell’oro olimpico del decathlon Ian Thorpe (poi riabilitato) e in tempi più vicini a noi Karl Schranz. Questo perché accettare denaro nelle discipline olimpiche significava perdere l’eleggibilità, la possibilità di partecipare ai Giochi.
E, mentre il calcio e gli altri sport di squadra proseguivano sulla strada del mecenatismo, la prima disciplina a “svegliarsi” è stata il ciclismo. Impossibile mettere un marchio su un atleta? Allora fondiamo una squadra, così nessuno può impedirci di scrivere sulla maglia il nostro marchio. Il muro è caduto alla fine degli anni ottanta, quando è stato accettato il concetto che pure un professionista potesse partecipare alle Olimpiadi.
Il meccanismo della sponsorizzazione si è raffinato ed ha avuto un balzo decisivo con la crescita dei quotidiani sportivi e l’aumento degli spazi televisivi. In fretta si è compreso che lo sport è un’eccezionale vetrina. Ormai un contratto di sponsorizzazione richiede un progetto raffinato: c’è una strategia che prevede tempi e ritorni, strategia che ha obbligato le società sportive e le federazioni a cambiare la loro struttura, ad attrezzarsi per il marketing, a diventare appetibili.
Ma quanto questo meccanismo condiziona la purezza dello sport? Il denaro delle aziende è linfa vitale ormai, ma di sicuro portare un marchio rende meno liberi. La necessità di un risultato può diventare pressante e il doping è sempre dietro l’angolo. Qualche sponsor è pure scappato quando l’immagine è diventata negativa, ma vincere rimane sempre per tutti il primo obiettivo. Il fenomeno va comunque sempre tenuto sotto controllo per evitare, sin dove è possibile, che certi paletti etici vengano superati.
Comunque al momento c’è forse un altro fenomeno che più preoccupa: l’arrivo massiccio di capitali dall’Estremo Oriente sullo sport del mondo occidentale. Certo, sono i nuovi ricchi, hanno bisogno di investire i loro ingenti capitali anche per costruirsi una nuova immagine. Ma qualche domanda sorge spontanea. Comprensibile nel ciclismo l’arrivo dei capitali dal Golfo Persico, ma perché nel calcio i cinesi si tuffano sulle squadre italiane quando ci sono campionati più prestigiosi in Spagna, Inghilterra e Germania, dove oltretutto si pagano meno tasse? La speranza è che credano nel nostro sport e non confidino sul lassismo dei controlli italiani per fini non ancora chiari.
Pierangelo Molinaro