Giro d’Italia Under 23. Praticamente: dilettanti, o semiprofessionisti. La vittoria nella semitappa del mattino, storica, la prima di un ruandese non solo in Italia ma in Europa, grazie prima a una fuga, da coraggioso avventuriero, poi a un contropiede, da consumatissimo “finisseur”. E il terzo posto nella combinata fra la prima e la seconda semitappa, quella del pomeriggio, una cronometro a saliscendi in cui si è difeso valorosamente. Per Joseph Areruya, una giornata esaltante, trionfale, memorabile. Conclusa con la premiazione a Campocavallo di Osimo, davanti alla facciata del Santuario della Beata Vergine Addolorata e a un pubblico festoso. Ma con un inconveniente imprevisto: l’antidoping. Costretto a depositare qualcosa di sé, e non avendo il magico potere dell’ubiquità, Areruya chiede al suo compagno di squadra, il sudafricano Nicholas Dlamini, di sostituirlo finché non perfezioni quanto richiesto e arrivi il più presto possibile.
Areruya e Dlamini, oltre che compagni di squadra e continente, sono anche compagni di pelle. Nera. Di quel nero nero, africano, equatoriale, se non che il Ruanda sta all’Equatore, ma il Sudafrica no. Però la matrice, l’origine, la fonte è quella: forte, genuina, naturale, e orgogliosa di essere nera. Oggi gli africani, dai magrebini ai boeri, dai tutsi agli hutu, dagli eritrei ai burkinabè, sono i nuovi protagonisti anche del ciclismo: “Più che di talento – confida Louis Visser, sudafricano (bianco) della Dimension Data for Qhubeka – Areruya è ricco di energia. Ha una forza tremenda. Sarà che il Ruanda è un altopiano a più di duemila metri, sarà che è il Paese delle mille colline, sarà la fame di gloria e vittorie e dunque anche soldi, ma Areruya, e anche Samuel Mugisha, sono inesauribili. In allenamento, e sempre sulle salite, devo pregarli di rallentare”.
La cerimonia di premiazione, che prevede la celebrazione del vincitore della tappa, poi l’assegnazione della maglia rosa al primo nella classifica generale, della maglia verde al primo nei gran premi della montagna, della maglia rossa al leader nella classifica a punti, della maglia bianca al primo fra i più giovani, e della maglia azzurra al primo nei traguardi intermedi, stavolta anticipa tutto con il riconoscimento al primo nella combinata, in omaggio a Michele Scarponi, figlio sfortunato di questa terra. Il rituale pretende di partire dal terzo, passare per il secondo e concludere con il primo. Ma Areruya non c’è. E quando lo speaker lo chiama sul palco, a salire è Dlamini.
La folla non sa, non distingue, non riconosce. Dlamini, al posto di Areruya, riceve il trofeo, conquista i baci delle miss, saluta e ringrazia il pubblico. Poi tocca all’australiano Lucas Hamilton, secondo, infine al vincitore della combinata, il russo Nikolay Cherkasov. Quindi lo speaker chiama tutti e tre, i primi tre, sul palco, per le foto rituali. E riecco Cherkasov, Hamilton e Dlamini, sorridenti ed esultanti. Ma è a questo punto che Areruya giunge finalmente al traguardo del palco, trafelato e disidratato. Sale le scale posteriori, dietro le quinte, appare sul palco disorientando un po’ gli sportivi, e al compagno Dlamini fa due cenni: il primo, quello per farsi consegnare il trofeo, e il secondo, quello per abbandonare la ribalta. Per amor di precisione.
Ecco Areruya. “Ho 21 anni”: è uno di quei tanti ruandesi anagraficamente nati il primo gennaio (lui, del 1996), ma solo perché i censimenti dei villaggi avvengono una volta tanto, e chi c’è, c’è. “Vengo da Rwamagana”: tradizionale tappa del Tour of Rwanda, la città natale di Adrien Niyonshuti, il primo ruandese a correre in Europa fra i professionisti, atleta olimpico a Londra 2012 nella mountain bike. “Ho due fratelli e tre sorelle”: per essere ruandese, una famiglia poco numerosa. “Sono andato a scuola fino a 15 anni”: le scuole ruandesi sono patrimoni di speranze e giacimenti di umanità. “Ma intanto lavoravo, facevo il tassista”: su una bici, ed è così che i ragazzi ruandesi diventano corridori. “Poi ho cominciato a frequentare l’Academy di Adrien”: una casa spoglia, ma vera, letti a castello per ospitare chi viene da lontano, bici anche di seconda mano – sarebbe più corretto: anche nuove – ottenute grazie a donazioni, frigorifero chiuso con il lucchetto per evitare tentazioni e furti, programmi di allenamento su foglietti appiccicati ai muri. “Adrien, per me, è come un padre, uno zio, un fratello maggiore”: e adesso corrono nella stessa formazione, la Dimension Data for Qhubeka. “Prima ad allenarci c’era Jock Boyer, un buon allenatore”: statunitense. “Adesso c’è Abraham Ruhumuriza, che è stato un grande corridore, e che uno di noi”: ruandese. “Sono cattolico”: come il 65 per cento dei ruandesi, il 25 per cento segue le religioni tradizionali, poi ci sono i protestanti e anche i musulmani. “E dedico questa vittoria a mia madre”: evviva. “Correre qui è diverso”: avremo tempo per riparlarne, Joseph.
Marco Pastonesi