Perché ai trecento metri Aru è scattato. Zigzagando, un ballerino ispirato, un corridore scatenato, un uomo affamato. E gli altri dietro, con quello che gli rimaneva dentro. Giovinezza e patriottismo per il vincitore, il francese Romain Bardet. Rabbia e orgoglio per il primo dei battuti, il colombiano Rigoberto Uran. Ventidue secondi dietro Bardet, venti dietro Aru, settimo, ma barcollante e suonato come un pugile alle corde, il britannico Chris Froome, il campione uscente, almeno per un giorno, dall’Olimpo della hit parade. Adesso la graduatoria recita Aru con sei secondi – niente – su Froome, venticinque – briciole – su Bardet e cinquantacinque – coriandoli – su Uran. Più indietro gli altri. Mancano otto tappe, con le Alpi e una crono di ventidue chilometri e mezzo: molto, moltissimo per immaginare scenari, ipotizzare eventualità, accendere sogni. E per rispondere a una domanda: Aru, ce la farà?
Non è un predestinato, Aru. Non è uno di quelli baciati dalla fortuna, favoriti dalla luna, privilegiati dalla natura. Non è nato campione, se aveva talento lo ha allenato, se aveva arte l’ha espressa. Da emigrante. Sardo di San Gavino Monreale ma da sempre a Villacidro, il paese di Giuseppe Dessì. “Da ragazzo solo qui mi sentivo a casa mia – tramandava lo scrittore -, solo qui mi pareva che la vita avesse un senso, e anche ora tutte le volte che ci ritorno, mi sembra di capire veramente tutto”. Così anche per Fabio. Nato in un giorno da Tour de France (quel 3 luglio 1990, a Mont-St-Michel, Museeuw superò Bontempi e Ludwig: un’altra era ciclistica), sembrava interessato ai passaggi e ai contrasti del calcio, e ai diritti e ai rovesci del tennis. La bici gli serviva solo per spostarsi più velocemente da casa al campo dove l’erba veniva ruminata dai tacchetti, e da casa ai campi in terra rossa. Finché quella Easy Time, roba da supermercato, gli apparve sotto un’altra luce, quella di un cavallo alato, o di una piccola principessa, o forse soltanto di un modo per esplorare il mondo e scoprire se stesso. Il giorno in cui, in macchina con i suoi genitori che lo accompagnavano a una gara, si fermò per veder passare il Giro d’Italia, Fabio vide passare anche il suo futuro, o lo sognò, o lo immaginò. E forse fantasticò se stesso, in maglia rosa o gialla, baciato da due miss e dalla vita.
Una terra vera, una famiglia sana, il liceo classico. Queste le basi. La scelta di fare, dello sport, la propria vita, senza certezze, se non quella dell’impegno. Fabio su strada, su pista, sui prati e sui sentieri. Si segnalò nel ciclocross e nella mountain bike, dove c’è meno concorrenza, dove c’è più semplicità e spontaneità. Poi sul continente, a Palazzago, nel Bergamasco, alla scuola di Olivano Locatelli, un duro, di metodi discussi e discutibili, ma che conosce il ciclismo e riconosce i corridori. Fabio soffriva di nostalgia, c’erano giorni in cui piangeva e notti in cui, se solo avesse potuto, avrebbe rifatto la valigia e sarebbe tornato a Villacidro, l’aria che sa di mirto e, i giorni di festa, anche di porceddu. Ma l’orgoglio è diventato fede, la lontananza si è trasformata in disciplina, i dubbi si sono elevati a traguardi. Nell’ambiente si cominciava a parlare di questo ragazzo, bravo, tenace, scalatore, uno che sa guidare la bici, uno che sa stringere i denti. E di denti – ammirate quei sorrisi da podio – sembra averne più di tutti.
Aru, da dilettante: il primo posto al Giro della Valle d’Aosta nel 2011 e nel 2012, e il secondo posto al Giro d’Italia nel 2012. Da professionista: il terzo posto al Giro d’Italia e il quinto alla Vuelta nel 2014, il secondo al Giro d’Italia e la vittoria alla Vuelta nel 2015, il tredicesimo (ma era sesto fino alla penultima tappa, quando fu steso da una cotta) al Tour nel 2016. Quest’anno il forfait al Giro d’Italia per una caduta, forse propizia, perché Aru non era in condizione, lo ha costretto a riprogrammarsi sul Tour, e stavolta la condizione l’ha raggiunta. La vittoria al campionato italiano – come una tappa al Tour: per attacco suo e sfinimento degli avversari – gli ha dato anche la forza mentale per affrontare un’odissea a pedali lunga tre settimane.
Aru ce la può fare. Se alla partenza un posto fra i primi cinque sembrava già un grande traguardo, se la vittoria di tappa (la quinta) alla Planche des Belles Filles gli apriva il podio, adesso questa maglia gialla lo proietta e lo elegge fra i possibili vincitori finali. Perché Aru è un attaccante, e in salita attaccherà. E perché Froome non è quel frullatore che si è impadronito di tre delle ultime quattro edizioni del Tour. La squadra di Froome, la Sky, è l’unica a poter giocare su due corridori (al settimo posto della generale c’è il basco Mikel Landa, a quasi tre minuti da Aru), ma l’elasticità nelle strategie non è il forte della corazzata inglese.
Il bello del ciclismo è questo patrimonio di valori, questo ventaglio di possibilità, questo stato di incertezze. Il bello del Tour – ce n’è già stato – deve ancora venire.
Marco Pastonesi