Un’istantanea di quasi cinquant’anni fa ritrae un giovane ragazzo, slanciato, esile, capelli mossi color corvino. È con un gruppo di amici seduti su un muretto, a Rozzano, camicie a righe, pantaloni bianchi. Il suo nome è Michele Alboreto. Diplomato come perito industriale, ad attenderlo c’è una carriera come dipendente in un’azienda. Ad un certo punto, però, i motori gli ronzano accanto.
È il 1976, motociclette e macchine scombussolano un’intera esistenza. Michele si invaghisce alla follia di tutto ciò che abbia almeno due ruote, lasciando da parte il lavoro e tuffandosi tra cilindri e candele. In principio furono le moto. Il padre se lo porta in macchina a Monza per girare sul circuito: a metà pista cambiano di posto; è così che Michele fa le prime esperienze. Altra istantanea: Alboreto è dentro una Formula Monza, un enorme numero 67 stampato in bianco ai lati. Quella monoposto se l’era comprata con i risparmi guadagnati in fabbrica, costava poco e bastava per sognare non il Mondiale ma la Formula 1 sì.
Tanti i sacrifici per correre, alimentando un sogno che per chi nasce ricco di famiglia è una delle tante velleità. Per Michele Alboreto è una scommessa da vincere innanzitutto portando in dote più che altro il suo talento, evidente al punto da fargli trovare quegli estimatori che gli riempiono il serbatoio delle possibilità. E il talento è la moneta con cui ringrazia chi gli fornisce i mezzi per poter continuare a metterlo in vetrina. C’è una serie di “grazie” che Michele Alboreto non ha mai dimenticato di pronunciare, e di continuare a pronunciare, nel tempo: un grazie alla scuderia Salvati, che lo segue passo dopo passo e lo aiuta nel passaggio alla Formula Italia; uno a Mario Simone Vullo e la sua squadra, che gli mettono a disposizione una monoposto talmente valida da piazzarsi quarto in classifica generale; grazie anche a Giampaolo Pavanello che lo ingaggia per la scuderia Euroracing e gli consente di provare il brivido del primo grande salto nel buio: quello nel Campionato Italiano di Formula 3. Nel mentre, il ringraziamento principale Alboreto deve sempre e comunque continuare a rivolgerlo a sé stesso, alla propria ostinazione nel dimostrare il suo talento, a prescindere dalla cilindrata del motore.
Nel 1980, fa suo il titolo europeo di Formula 3. È forse, dei tanti passaggi di carriera di Michele, la vera e propria linea d’ombra della maturità agonistica. È lo spartiacque tra le aspirazioni e il riconoscimento unanime del suo talento, la legittimità delle sue aspirazioni di pilota. Michele Alboreto pilota lo è davvero, in senso assoluto e con un’abilità e una dedizione che prescindono da categorie e specificità: nello stesso periodo lo nota e lo valorizza Cesare Fiorio, che lo chiama alla guida della Lancia per il Campionato Sport Prototipi: anche a ruote coperte il pilota di Rozzano si rivela uno sul quale fare all-in. Alboreto è la sintesi di prestazioni e affidabilità nella messa a punto della vettura. Si ripete a Misano, in Formula 2, nel 1981.
John Donne e uno spot di una nota catena di supermercati scandivano che: “Nessun uomo è un’isola”. Già. Come a significare che il vissuto di ognuno di noi è in qualche modo connesso e determinato da quelli altrui. Oggi, in pochi sanno chi sia stato il Conte Gughi Zanon di Valgiurata, oltre che un produttore di caffè e un nobiluomo del nord Italia. Scomparso nell’ottobre 2005, è stato un mecenate e uno scopritore di talenti nell’ambito delle quattro ruote: da Peterson a Senna, per intenderci. E in mezzo, anche temporalmente, il nome di Alboreto che il Conte di Valgiurata sussurra all’orecchio dell’amico Ken Tyrrell. Quel sussurro è il pass per la Formula Uno, che lo vede esordire nel 1981 a Imola. Un anno dopo, tra le curve dello stesso circuito, si ritrova sul podio e il suo è l’unico sorriso integro, in mezzo a quelli per sempre svaniti del vincitore Didier Pironi e di Gilles Villeneuve, l’amico tradito, giunto al suo ultimo traguardo. Quadretti da brivido che la F1 di quegli anni regalava fatalmente.
Alboreto trionfa, sempre nel 1982, tra i muretti di Las Vegas che, su una pista dove la destrezza di guida diventa un tutt’uno con la roulette dei ritiri e delle magagne meccaniche. Quella domenica l’attenzione è tutta rivolta su Rosberg e Watson, gli assoluti protagonisti della stagione. Keke parte sesto mentre il britannico si deve accontentare del nono posto in griglia. Le battute iniziali premiano Arnoux che si prende la prima piazza, mentre dietro dopo una partenza da dimenticare John si riporta dietro a Keke. Il pilota McLaren in realtà ha pochissime speranze, perché costretto a vincere e a sperare che il finlandese non vada a punti. Alboreto in tutto questo mantiene la sua terza posizione. Il primo colpo di scena arriva nel corso della ventunesima tornata, quando René è costretto a ritirarsi per un problema verificatosi sul suo motore Renault. Alain Prost torna in testa, ora Michele è secondo ma dietro di lui vede un agguerrito John Watson. Nel corso del cinquantesimo giro, però,la Renault di Prost comincia a patire forti vibrazioni. Il francese fa fatica a tenere la sua RE30B e viene scavalcato da Alboreto, per poi perdere la posizione anche nei confronti di Watson e del padrone di casa Eddie Cheever. Un’apoteosi. Il rozzanese è al comando della gara e mancano 25 giri alla bandiera a scacchi. 25 giri tutti vissuti in apnea da milioni di italiani davanti alla TV. Michele Alboreto vince la gara di Las Vegas, è la sua prima vittoria in Formula 1.
Settembre 1984:
“È un giovane che guida tanto bene, con pochi errori. È veloce, di bello stile: doti che mi rammentano Wolfgang von Trips, al quale Alboreto somiglia anche nel tratto educato e serio. Ho sostenuto che è fra i sei migliori della Formula 1 e che con una macchina competitiva non sprecherà certamente l’occasione di diventare campione”.
Firmato Enzo Ferrari. Uno che nei confronti dei piloti italiani aveva in passato nutrito una sorta di istintiva diffidenza. Alboreto è stata l’eccezione che conferma la regola.
Ci aveva visto giusto il Drake, come sempre del resto. L’inizio del matrimonio ha subito successo, dato che nella stagione 1984, nonostante la scarsa competitività della Ferrari relativamente a quella della McLaren-Tag-Porsche, Alboreto è capace di cogliere una sorprendente, ma tutt’altro che immeritata, vittoria al Gran Premio del Belgio, che allora si teneva a Zolder. La stagione non è semplicissima, ma si conclude in ogni caso al secondo posto nel campionato costruttori, grazie anche all’apporto dell’altro alfiere René Arnoux. La musica cambia nel 1985. La Ferrari 156-85 nasce bene. I test sono incoraggianti.
Alla prima tappa del mondiale, è subito pole position a Rio sul circuito di Jacarepaguà. Solo un contatto con la Williams-Honda di Nigel Mansell, che gli procura un’usura accelerata di uno pneumatico, gli impedisce di tagliare il traguardo davanti a tutti. Alla gara successiva, in Portogallo, nonostante la macchina presenti dei problemi d’assetto nelle prove generali, Michele riesce a sfruttare le condizioni bagnate per conquistare di nuovo una piazza d’onore tutt’altro che banale: quei punti gli permettono di agguantare la testa del mondiale, la prima volta per un pilota italiano dal 1958. Dopo un ritiro per problemi elettrici nel rocambolesco Gran Premio di San Marino, Alboreto riprende la marcia del podio già a Montecarlo, dove conclude sempre secondo, privato di una meritata vittoria a causa di una foratura per un’uscita di pista. Tutta colpa di una macchia d’olio non segnalata. Michele sembra avere le carte in regola per dare battaglia ad Alain Prost in McLaren, il favorito. A Spa-Francorchamps, le premesse sono esaltanti: miglior tempo in qualifica, di ben mezzo secondo sulla concorrenza. Ma il tracciato belga presenta un grosso problema, ossia quello dell’abrasione dell’asfalto, che rende la pista inguidabile e piuttosto pericolosa. Il weekend delle Fiandre è rinviato a settembre.
Il momento di forma della Ferrari, e in particolare di Alboreto, prosegue in Canada, dove coglie la prima vittoria stagionale: per il Cavallino arriva addirittura una doppietta, con Stefan Johansson (subentrato al posto del licenziato Arnoux) che segue l’italiano al traguardo. La Ferrari è veramente tornata al top. L’entusiasmo a Maranello è alle stelle, si accarezza il brivido di compiere qualcosa di speciale. Stanno per arrivare, però, tempi bui.
Al Gran Premio di Francia, il milanese si ritira per una rottura al turbo. Nelle tre gare successive Alboreto sale sempre sul podio ma il trionfo in Austria rappresenta il capolinea. Alboreto e Prost sono allora appaiati in classifica, condividendo la leadership a 50 punti. Sono sei le gare da disputare. Ma è il preludio del disastro. Dopo il quarto posto di Zandvoort, Alboreto non termina nessuno dei rimanenti cinque gran premi, compreso il Gran Premio del Belgio dove aveva tanto ben figurato nelle qualifiche di giugno, con l’affidabilità della Ferrari che serve su un piatto d’argento il mondiale al pilota transalpino della McLaren. Da lì in poi la sua carriera in Ferrari, terminata a fine 1988, prende una piega diversa, complici anche discordie interne al gruppo, in primis con John Barnard, progettista britannico in funzione a Maranello dal 1987.
Una figura profonda, gentile e spesso assorta quella di Michele Alboreto. Quell’aria da pilota meticoloso e collaudatore in primis di se stesso, doveva averla anche il 25 aprile del 2001, prima di abbassare la visiera del suo casco, già calatosi nel frattempo nell’abitacolo della Audi R8 Sport, da testare sulla pista del Lausitzring, in Germania. Anche nella consueta concentrazione assoluta di quel giorno, un sorriso bonario e discreto deve avergli attraversato il viso, prima che vi sistemasse sopra la maschera bianca. Forse la stessa espressione a metà tra timidezza e simpatia con la quale aveva conquistato sua moglie Nadia sui banchi della scuola, quando sognava di diventare pilota, pur non avendo ancora la patente. Merita di essere immortalato così Michele Alboreto. In quell’istante nel quale gli occhi del pilota si fissano verso un punto noto soltanto a lui, prima di sentire dietro di sé il motore che prende vita. E la curva di Monza che porta il suo nome è lì a ricordarcelo. Sempre.
A Michele dobbiamo un Mondiale – Enzo Ferrari