Era nell’aria, ma così è una bomba, non un petardo. José Mourinho esonerato dalla famiglia Friedkin. Arrivederci Roma. Senza se e senza ma. I risultati, naturalmente: la sconfitta di San Siro con il Milan, il k.o. nel derby di coppa, un nono posto in classifica che non risponde alle attese (e neppure al sesto della mia griglia estiva). E, per gli amanti del cavillo esoterico, la sindrome della terza stagione.
A 60 anni, l’ex Special ha scoperto di essere sempre più prigioniero dei giocatori (del loro livello tecnico, intendo) e della sua filosofia, sua di lui, che dai tempi delle manette e del triplete interista si è ridotta via via a una caccia rozza e spietata agli arbitri (pre-ventiva con Marcenaro, post-ventiva con Orsato), cosa che ha acceso e propagato alibi che hanno finito per consumare il poco gioco che c’era e, soprattutto, i nervi dei fedelissimi (l’invasato Mancini in testa).
Era sinceramente brutta, la sua Roma, appesa alla corda dei muscoli fragili di Dybala e alla stazza amletica di Lukaku. Eppure il popolo continuava a coccolarlo. Sold out su sold out per ringraziarlo della Conference, della finale di Europa League, di monologhi che cementavano l’orgoglio ferito del Romanismo. I tifosi. Non i padroni. Loro no. Distanti, assenti, ambigui. Americani attenti all’immagine, visto che altro non rimaneva.
E fra gli stessi curvaioli, qualcuno cominciava a scivolare fuori, triste, malinconico, come se si sentisse più traditore che tradito. Non lontano dalle ultime versioni di Chelsea, Manchester United (1 Europa League e 1 Coppa di Lega, comunque) e Tottenham, Mourinho mi ha ricordato il Marziano di Ennio Flaiano. Al suo atterraggio a Villa Borghese, non lo si poteva avvicinare, tanta era la ressa di mamme con pargoli, nonni curiosi e aspiranti servi. Piano piano, però, ecco i primi «embé?», i primi «e allora?». E’ il destino dei Grandi: o tutto o niente.
Roberto Beccantini