Paola Magoni ricorda con la consueta riservatezza l’impresa olimpica di Sarajevo 1984. Eppure quell’oro in slalom speciale era il primo di un’azzurra in un’Olimpiade Invernale. E’ stato lo spartiacque a decine di trionfi degli ultimi anni.
Paola, sono passati quarant’anni dal trionfo di Sarajevo. Cosa ricorda di quel giorno?
Mi ricordo quasi tutto perché è stata una giornata indimenticabile, dallo scambio di battute con il mio skiman fra le due manche all’abbraccio con mio papà e con l’allora presidente dello Sci Club Selvino dopo la vittoria passando per il trasferimento in pulmino con il mio allenatore Toni Morandi dal Monte Jahorina a Sarajevo. Questi sono i momenti che ricordo con maggior piacere.
Com’era gareggiare in Jugoslavia all’epoca?
Posso dire che le Olimpiadi furono organizzate in maniera impeccabile. Erano presenti moltissimi volontari e l’esperienza è stata più che positiva, al di là della vittoria.
La vittoria arrivò grazie a una rimonta nella seconda manche caratterizzata da una coltre di nebbia che aveva colpito il Monte Jahorina. Come riuscì a centrare questo risultato nonostante condizioni tutt’altro che favorevoli?
Eravamo in cinque racchiuse in sedici centesimi. Ci trovavamo insomma tutte lì con condizioni identiche. In realtà tutta questa nebbia non c’era. La televisione spesso schiaccia le immagini e per questo la visibilità sembra peggiore di quanto sia. Sapevo che si trattava di un’occasione da non farmi scappare e, sciando bene, sono riuscita a mettere assieme tutti i pezzi.
Avendo ottenuto principalmente sino a quel momento soltanto risultati in ambito juniores, secondo lei le avversarie la sottovalutarono?
Era una stagione che stavo sciando bene. Facevo un po’ fatica a completare una gara perfetta perché spesso facevo la prima manche e sbagliavo la seconda oppure viceversa. Sapevo di esser in forma e quindi avessi le possibilità di vincere. Infatti mi sono detta ‘o vinco oggi oppure non vinco più’. Impresa raggiunta.
Si sarebbe mai aspettata di diventare la prima donna italiana a vincere un oro alle Olimpiadi Invernali?
Per me non è stato nulla di strano. In genere sono più i media a esser così attenti a questi aspetti. Sinceramente ciò non mi ha dato un’emozione particolare.
Come la presero le sue compagne di squadra Maria Rosa Quario e Daniela Zini considerato che loro erano le stelle della Valanga Rosa?
Tolta la delusione iniziale, ognuno poi accetta il proprio risultato, bello o brutto che sia. All’inizio sono rimaste un po’ colpite, ma poi hanno dovuto far i conti con la prestazione, cosa che avrei fatto anche io al loro posto.
A Sarajevo era presente anche il suo compaesano Roberto Grigis. Quanto l’aiutò la sua presenza in una gara così importante?
Roby ha sempre fatto parte della nostra famiglia perché sin da piccolino ha sempre girato per le gare con mio papà, i miei fratelli e le mie sorelle visto che non aveva dei genitori che lo potessero seguire per le competizioni. Sicuramente quando ci si trovava al villaggio olimpico faceva piacere, poi in gara non molto, perché non si pensano a queste cose quando si scende in pista o ci si deve allenare.
Come venne accolto in Italia questo suo successo? Quanto le ha cambiato la vita?
In realtà non molto perché sono sempre stata una persona riservata e ho continuato a fare quanto facevo prima. Sono cambiate le persone attorno a me, ma per il resto non ho notato tutti questi cambiamenti.
Nel 1985 arrivò la prima vittoria in Coppa del Mondo nello slalom speciale di Pfronten e poi il bronzo ai Mondiali di Bormio. Quei traguardi ebbero lo stesso impatto della vittoria olimpica?
Le ho vissute nello stesso mondo perché quando ti alleni, fai molti sacrifici, ti prepari per un grande appuntamento e poi fai risultato, le emozioni sono molte. Ciò non cambia per come la vivi, anche se le Olimpiadi rimangono sempre le Olimpiadi.
Nel 1988 tornò alle Olimpiadi a Calgary cogliendo il settimo posto in slalom speciale. Come fu aprire il cancelletto da campionessa uscente?
Quando scendi in pista non pensi a quelle cose. Non ero in formissima in quel periodo e non riuscivo a sciare benissimo. E’ vero che sono arrivata settima, ma all’epoca sembrò che avessi ottenuto un risultato negativo. Eccetto Sofia Goggia o Federica Brignone, se oggi un’italiana ottenesse un settimo posto alle Olimpiadi, sarebbe un risultato grandissimo.
Proprio a Calgary arrivò la leggendaria doppietta di Alberto Tomba. Come visse quel traguardo che ha fatto storia in questo sport?
A Calgary purtroppo nessuno di noi si trovava al Villaggio Olimpico perché le sedi di gara erano molto lontane dalla città. Non abbiamo quindi avuto modo di incrociare gli uomini perché ci trovavamo in alberghi diversi, distanti l’uno dall’altro. In questi casi si perde un po’ il clima olimpico, però seguimmo con grande attenzione le prestazioni di Alberto perché rimaneva comunque un personaggio.
Al termine della stagione 1990 decise di ritirarsi ancor prima di compiere 26 anni. Cosa la spinse a fare questa scelta nonostante avesse di fronte ancora tutta una carriera?
In Nazionale non c’era più una vera programmazione. In tre anni abbiamo cambiato tre allenatori e a quel punto mi sono accorta che era il momento di fermarmi visto che ciò non mi portava a nulla.
Guardando al passato, ha qualche rimpianto in merito al suo percorso agonistico?
Non ho rimpianti, sono più che soddisfatta.
Nell’attuale mondo dello sci c’è qualcuno che può ricordare Paola Magoni?
Sinceramente non penso, non tanto perché io fossi speciale, ma perché ognuno ha il suo modo di affrontare le gare e soprattutto perché lo sport è cambiato moltissimo rispetto alla mia epoca.