L’ultimo match del Sei Nazioni azzurro, in programma oggi a Roma con la Francia dell’ex coach azzurro Jacques Brunel (diretta DMAX ore 13:30), sarà “con grandissime chance la mia ultima partita all’Olimpico”, ha dichiarato capitan Sergio Parisse ierinella conferenza stampa della vigilia. In altri termini, sarà quasi sicuramente il commiato di uno dei più grandi protagonisti della storia del rugby azzurro al torneo più prestigioso per una nazionale europea. Quel Sei Nazioni cui venimmo ammessi dopo ripetuti respingimenti a partire dal 2000, grazie all’opera diplomatica dello staff dell’allora presidente federale Giancarlo Dondi e alle imprese sul campo di giocatori immortali come Paolo Vaccari, Franchino Properzi, i fratelli Marcello e Massimo Cuttitta, un giovane Alessandro Troncon e un ex pumas che scelse la casacca azzurra e risponde al nome di Diego Dominguez. La storia dell’Italia in questi primi vent’anni nel gotha del rugby europeo è fatta di tante sconfitte e alcune (poche) vittorie prestigiose. Se abbiamo saputo offrire qua e là in queste due decadi talune prestazioni esaltanti che ci hanno tenuto a galla, il merito è in parte significativa di Sergio Parisse. Quando nel 2002 in Nuova Zelanda, a soli 18 anni John Kirwan gli comunica che avrebbe giocato titolare con gli All Blacks, Sergio non sta nella pelle e chiama immediatamente il padre in Argentina. La risposta di Parisse Senior, complice l’orario notturno, non è di quelle più motivanti: “Kirwan è impazzito”. Invece il Campione del Mondo 1987 dimostra ben presto che quella scelta è stata tra le più lungimiranti per l’Italia ovale.
In Nazionale, Sergio vive l’emozione della Coppa del Mondo 2003 in Australia, in cui l’Italia accarezza il sogno dei quarti di finale prima di perdere col Galles al termine di una lunga battaglia e la delusione del Mondiale successivo in Francia, quando la Nazionale di Pierre Berbizier, reduce da ben due vittorie nel Sei Nazioni, non riesce a scrollarsi di dosso la pressione e per due soli punti cede alla Scozia il pass per accedere alle migliori otto squadre del mondo. La svolta in termini gerarchici arriva con l’approdo sulla panchina azzurra di Nick Mallet, che toglie la fascia di capitano a Marco Bortolami per assegnarla a lui. Un’altra scelta felice per la nazionale azzurra.
L’ULISSE DELLA PALLA OVALE
Non è raro, per il pubblico più inesperto, venire “ingannati” da capitan Parisse. Meno di dieci anni fa l’Italia disputava il Sei Nazioni nel piccolo Flaminio, che fu teatro della vittoria sul Galles nel 2007 e di quella, superba, sulla Francia nel 2011, quando gli azzurri dettero una sensazione di controllo del campo nel secondo tempo mai vista prima. Il passaggio all’Olimpico doveva essere provvisorio in attesa dell’allargamento dello stadio,raggiungibile con una bella passeggiata in mezzo ai variopinti tifosi azzurri e avversari una volta varcato l’arco che si lascia alle spalle Piazza del Popolo. In seguito, la risposta entusiasta e massiccia del pubblico verso un impianto ben più capiente ha suggerito alla nostra Federazione di farne lo stadio ufficiale dell’Italia, massimizzando i guadagni immediati che lo stadio di Roma e Lazio garantiva. Purtroppo, le promesse arrivate da più parti di non dimenticarsi del Flaminio vennero presto disattese e oggi lo stadio vicino all’Auditorium Parco della Musica giace vergognosamente abbandonato a se stesso, mentre si continua a sperare che il progetto della Lazio di Lotito di farne il proprio impianto di proprietà un bel giorno prenda finalmente forma. Se i fondi continuano a latitare e i tempi ad allungarsi, quello storico e glorioso stadio rischia ogni giorno di più di diventare all’interno un ricettacolo di bisce che si aggirano nell’erba alta e all’esterno una costruzione passata da fatiscente a pericolante, fino all’abbattimento come unica soluzione praticabile.
Nel 2009, però, il Flaminio è ancora la casa dell’Italrugby e durante un Italia-Francia in cui gli azzurri stanno inesorabilmente soccombendo, in una fase offensiva Sergio gira il busto verso sinistra e allunga le braccia per passare l’ovale, ma attende un istante che a molti tifosi sembra di troppo, con la possente prima linea francese che si sta avventando su di lui. Un attimo dopo, diviene chiaro a tutti che quell’attimo d’incertezza è in realtà una sapiente finta per eludere il placcaggio avversario e sfruttare dall’altro lato la progressione di Luke McLean, che riceve il pallone in modo ideale per sfruttare la quantità di moto accumulata sfondando la Maginot in placcaggio. L’Ulisse italico ha permesso all’Italia di superare le mura di Troia dell’area dei 22 metri francesi, accompagnato da un roboante applauso del pubblico, che trasuda un misto di ammirazione e imbarazzo per aver condannato troppo presto un gesto tecnico che si è poi rivelato di un’intelligenza tattica per palati fini. Gli stessi palati che hanno assaporato rugby da anni e che ora sono quasi maggioritari in un pubblico che ha visto dai primi anni di frequentazione dell’Olimpico un costante calo ormai vicino al dimezzamento, se confrontiamo i numerosi “tutto esaurito” dei primi Sei Nazioni accanto al Foro Italico (ossia più di 80.000 tifosi paganti) ai numeri attuali, che quando arrivano ai 55.000 dell’ultima sfida contro l’Irlanda oggi vengono salutati con soddisfazione, mentre non più di cinque anni fa sarebbero stati visti come un flop clamoroso.
PARISSE COME BUFFON
Nella Coppa del mondo di Inghilterra 2015, l’Italia arriva alla partita decisiva del suo girone con la flebile ma reale possibilità di centrare l’appuntamento con la storia. All’Olympic Park di Londra, costruito per le Olimpiadi 2012 e oggi stadio di proprietà del West Ham, l’Italia si gioca contro la più quotata Irlanda l’accesso agli agognati quarti di finale, che nella nostra storia ci sono sempre sfuggiti. La sola vittoria non sarebbe sufficiente, si tratta di vincere possibilmente con uno scarto superiore ai 7 punti per aggiudicarsi il punto di bonus in classifica e poi superarelargamente la Romania portandosi a casa altri 5 punti. In realtà, la sola ipotesi di battere gli irlandesi viene vista quasi come un’utopia, specie dopo il successo oltremodo sofferto contro il battagliero ma tecnicamente modesto Canada. Contro i nordamericani, però, l’Italia aveva dovuto rinunciare al suo capitano, mentre con l’Irlanda il ritorno in campo di Parissecambia radicalmente gli altri 14 azzurri in campo. L’Italia offreuna prestazione maiuscola, al punto che quando sul10-6 per i verdi Joshua Furno, fisico e capelli biondi da vichingo, cerca di tuffarsi in meta per l’imprevedibile sorpasso, i cuori degli italiani appassionati di palla ovale tornano a palpitare come non accade da tempo, anche se il TMO rileva che l’ovale non ha raggiunto la linea di meta. Gli azzurri lottano fino alla fine e sebbene il 16-9 finale ci condanni a rimandare ancora l’appuntamento con i quarti del mondiale, l’Italia esce tra meritatissimi applausi. Durante tutto il match, la presenza del flanker dello Stade Francais è percepibile: lo si vede sia dalle sue giocate palla in mano sia dalla sicurezza che sa trasmettere ai compagni, visibilmente più liberi di esprimersi perché certi di trovare il sostegno del loro capitano. Era un po’ quello che accadeva ai difensori della Juve quando la sola consapevolezza di avere alle loro spalle Gigi Buffon – non a caso anche lui capitano – toglieva loro insicurezza e pressione, con evidenti benefici sul rendimento in campo.
Anche con Connor O’Shea la centralità di Sergio Parisse è fuori discussione. L’attuale head coach, sebbene i suoi risultati sulla panchina italiana siano fortemente deficitari, ha avuto il merito di allargare notevolmente il serbatoio di giocatori cui attingere, ma in quale modo potremo non rimpiangere uno dei pochissimi giocatori che le nazioni più blasonate dei due emisferi ci hanno sempre invidiato?