Francesca Schiavone è il Federer de “noantri”. Come Adriano Panatta, ha vinto un Roland Garros, ha raggiunto la classifica mondiale più alta fino al numero 4, è stata il tennista italiano più forte di sempre, è stata davvero in grado di piegare i più forti in assoluto dando spettacolo e strappando applausi anche agli avversari.
Ma “Franci” è stata anche di più, come prima tennista italiana di sempre ad aggiudicarsi un titolo dello Slam, trainando la finale di Parigi di Sara Errani del 2012 ed anticipando il trionfo di Flavia Pennetta agli Us Open 2015. Ed è stata quindi ancor più grande di Adriano perché, negli anni, è scomparsa ed è riapparsa come solo i campioni immortali sanno fare, risultando assolutamente imprevedibile in qualsiasi sua manifestazione, che sia un sorriso, un litigio, una passione, un abbandono, un game dominato e illuminato da mille scoppiettii di classe, un altro tagliuzzato come coriandoli, una partita o un torneo travolgente, una sconfitta prematura e inattesa. L’abbiamo vista esplodere e riesplodere più e più volte, e sempre ci ha lasciato a bocca aperta. Ci riesce col duro lavoro d’allenamento, certo, come puntualizza lei nel nuovo giorno di gloria a Bogotà, dopo aver dominato la spagnoletta Lara Arruabarrena di 12 anni più giovane e tanto più avanti nella classifica mondiale (numero 65 a 168). Ma, soprattutto, deve ringraziare istinto, ispirazione, momento magico, erezione agonistica, talento purissimo e anomalo, se vogliamo che vintage di un tennis di varietà che non esiste più: tutti elementi assolutamente astratti, e personalissimi, legati all’imponderabile, a quell’io particolarissimo della milanese, non certo ai 37 anni che compirà il 23 giugno. Anni che, a fine stagione, appesantiti da tante campagne Wta e da tanti allenamenti e sacrifici, la porteranno, il 31 dicembre, all’annunciato addio agonistico.
Oggi, il mondo intero si sorprende della finale a Bogotà, la prima dal titolo a Rio 2016, e dieci anni dopo il primo urrà sul circuito pro, peraltro invitata al torneo solo con una wild card degli organizzatori, transitata poi attraverso un trittico affatto facile, battendo avversarie molto inferiori di talento, ma molto più giovani ed accreditate in classifica: la testa di serie numero 6, Tig (85 del mondo), la 1, Bertens (n. 21) e la 3, Larsson (n. 57). Noi che la conosciamo benissimo, avendola accompagnata in questa sua intrigantissima avventura, non ci sorprendiamo delle sue dichiarazioni: “Nel mio cuore sapevo che potevo arrivare in finale, perché ho lavorato duro per essere qui e, quando lavori duro, le cose succedono, prima o poi succedono. Questa è solo la conferma di quello che sapevo, quello che volevo o potevo immaginare. Non avverte affatto la pressione di vincere il titolo, qui, alla mia ultima stagione, sento solo il desiderio di lottare, di vincere, di trovare le soluzioni in campo e di continuare a lavorar duro”.
Francesca è arrivata in alto in ritardo. Ci ha impiegato tanto per mettere insieme le cose dopo aver perlustrato più strade tecniche, per capire se doveva restare a fondocampo e vincere di muscoli e resistenza o attaccare e fruttare l’anticipo e la volée. Come Pollicino, ha riscoperto la soluzione tornando alle sane radici italiche, a Renzo Furlan (che l’ha aiutata ad anticipare la riposta col rovescio a una mano) e a Corrado Barazzutti (che l’ha guidata come un papà). Ha vinto Parigi a 29 anni e 11 mesi, ma ha contestato il rilievo temporale: “Non sono arrivata tardi, forse ho perso delle occasioni, ma questo è il mio tempo. Ed è ancora più bello perché ci sono arrivata restando me stessa». Ha avuto un amico psicologo, Giovanni Parmigiani, dal 1999: “Gli spiegai subito: “Mi faccia diventare una grande persona, una grande atleta, perché voglio vincere il Roland Garros”. Ha cominciato a parlare di sé, come in trance, in terza persona, tirando fuori, dai tanti libri che ama leggere, espressioni che non aveva usato mai: “Si può vincere e perdere, ma cosciente del fatto di aver dato tutta me stessa e di essere felice di averlo fatto nel migliore dei modi. Oggi la Schiavone è una donna contenta di se stessa e di quello che fa: il resto non conta».
Il resto è stato un su e giù senza pilota, sulle montagne russe più impervie e paurose. Francesca era un fenomeno già nella finale di Sydney 2006, quando fece paura a Justin Henin, rubandole il gioco di contrattacco, ma si arrese per 4-6 7-5 7-5. Era a ridosso delle “top ten”, ma si fermò al numero 11, e ha vinto il primo titolo Wta a Bad Gastein in Austria soltanto nel 2007, e soltanto dopo nove finali negative. Poi ha fatto continuamente scalpore, fra acuti e discontinuità. Per capirsi, è arrivata ai quarti a Wimbledon 2009 – quarta italiana di sempre – rifilando anche un 6-0 a Marion Bartoli, futura regina 2013, ma da allora non ha più brillato sull’erba. Quell’anno cedeva già al primo turno di Parigi a Sam Stosur con un 6-4 6-2 saturo di impotenza contro il “toppone” di dritto dell’australiana. Ma nel 2010, dopo aver volato Barcellona senza perdere un set, ha conquistato in modo incredibile, ma meritatamente, il titolo del Roland Garros distruggendo in finale proprio la sua bestia nera Stosur e salendo addirittura al numero 6 del mondo. Ebbra di felicità, ha poi perso a raffica, ovunque, é scivolata al numero 70 della classifica, ma quando sembrava già persa, la classica “vincitrice di un solo Slam”, ha ritrovato il tocco magico sul cemento, arrivando a settembre ai quarti agli Us Open, e nel gennaio dopo a quelli agli Australian Open, transitando per la storica maratona contro Kuznetsova (vinta per 16-14 al terzo set dopo 4 ore e 44 minuti e sei match point salvati) e per l’onorevolissima sconfitta contro la numero 1 del mondo Wozniacki, ha toccato il numero 4 della classifica, la più alta di un italiano dal 1973, eguagliando Adriano Panatta.
Nel 2011, ha ripreso coraggio sulla terra soltanto in vista di Parigi, alla vigilia, con la semifinale di Bruxelles. Poi, una volta a Porte d’Auteuil, ha rimontato da 1-6 1-4 nei quarti contro Pavlyuchenkova, ha dominato la Bartoli, è arrivata da favorita alla sorprendente ed inattesa finale bis nel “suo” torneo, sulla “sua” superficie, ma non è riuscita a piazzare la doppietta, arrendendosi alla cinese Li. Subito dopo, è scomparsa ancora una volta, per ripresentarsi col successo di Strasburgo 2012 contro Cornet, e risalire al numero 12 Wta, a due anni dall’ultimo successo. Ma quando sembrava recuperata, è uscita dalle prime 100 del mondo, e quando tutti la davano per sorpassata, è riapparsa di nuovo, all’improvviso, col settimo titolo della carriera, l’anno scorso, a Rio. E lo stesso ha fatto questa settimana a Bogotà, proprio mentre suonavano i peana per il suo triste ritiro che sembrava una via crucis, lastricata di sofferenze come in Fed Cup, la manifestazione della quale è stata l’eroina. Invece, grazie ai punti ottenuti con la vittoria in Colombia, l’eterna Francesca, la Federer de noantri, non solo firma l’ ottavo titolo in carriera, dieci anni dopo il primo, ma da domani risale al numero 104 del ranking (guadagnando 64 posizioni), garantendosi la partecipazione al tabellone principale del prossimo Roland Garros, dal 28 maggio.
Vincenzo Martucci