Come accade che, un certo giorno di ottobre (il 20 per la precisione), mi sia ritrovato sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Salsomaggiore a vestire i panni di Nicolò Carosio? E quando dico vestire i panni, non uso una metafora: cappottone, Borsalino in testa, ho interpretato per qualche minuto la parte del grande Nicolò, il vero inventore in Italia del nostro mestiere di radio e telecronisti sportivi, sceneggiando in maniera più fedele possibile il provino che sostenne il 1° maggio 1932 negli uffici dell’EIAR (la Rai di allora).
Carosio, allora 25enne, era stato segnalato ai dirigenti dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche da Emilio De Martino, il più famoso giornalista sportivo dell’epoca. De Martino, capo della redazione sportiva del Corriere della Sera, aveva scoperto questo singolare giovanotto che, per conto suo, effettuava finte radiocronache di partite ai bordi dello stadio di Venezia o, addirittura (per esercitarsi) nel retrobottega di un negozio di elettrodomestici. Figlio di un palermitano e di una pianista inglese, trascorreva spesso vacanze in Inghilterra e aveva visto che lì, nella patria del football, durante le partite un giornalista ed un ex allenatore commentavano in diretta le fasi di gioco. Cosa che da noi non si faceva. Gli nacque così l’idea di raccontare le partite e, tenace, cominciò a provarci.
Al provino, nella sede di Torino, gli fu chiesto di dare un saggio delle sue capacità improvvisando una radiocronaca sul momento. Scelse di “fare” uno Juventus-Torino. Ed è quello che, in dialogo con un bravo attore in veste di esaminatore, ho fatto sul palcoscenico, dopo aver mandato a memoria i nomi di quelle formazioni del campionato ’31-’32.
Dopo, sfilandomi cappotto e cappello, sono rientrato nei panni del narratore (a me un po’ più congeniali) ricostruendo la storia professionale di Carosio che, pochi giorni dopo quell’esame, fu ingaggiato e, rapidamente, diventò per quasi quarant’anni la voce del Calcio italiano (e non solo del calcio): prima alla Radio, poi alla Televisione.
E’ una cavalcata lungo un arco temporale che abbraccia il fascismo, la guerra, la ricostruzione, la tragedia di Superga, la lenta rinascita della nostra Nazionale, ferita dal vuoto generazionale aperto dalla scomparsa del Grande Torino di capitan Mazzola. Fino ai Mondiali di Messico ’70, quelli di Italia-Germania 4-3 e della finale persa col Brasile di Pelé, quando la carriera di Nicolò Carosio subisce un improvviso e ingiusto stop sotto l’accusa di aver rivolto epiteti razzisti al guardalinee etiope di Italia-Israele (terza, decisiva partita del girone eliminatorio messicano) che aveva fatto annullare due gol azzurri.
Già, ma torniamo all’inizio: come accade che, a un certo punto, mi sia trovato a vestire teatralmente i suoi panni?
A mettere in moto tutto era stato, nel 2008, un bravo e tenace storico-documentatore della TV, Pino Frisoli, che mi sottopose, al termine di una puntata della Domenica Sportiva da me condotta, una sua ricostruzione della storia dello sport in TV, nella quale la vicenda di Carosio occupava una parte non secondaria (né avrebbe potuto essere diversamente, data l’importanza del personaggio). Mi mise in guardia, Frisoli: non c’era traccia nelle registrazioni dell’epoca, di insulti al guardalinee. Eppure la leggenda metropolitana, avallata da tanti presunti testimoni, era che Carosio avesse dato del “negro” se non addirittura del “negraccio” al signor Seyoun Tarrekegn, questo il nome del guardalinee etiope di quella fatidica partita.
Cominciammo, insieme, ad approfondire. Anche perché da quella sua accuratissima ricostruzione del rapporto storico fra Sport e Tv in Italia sarebbe nato un libro a doppia firma pubblicato da Rai-Eri, che sarebbe stato adottato da molti studenti di Scienza delle Comunicazioni.
Insomma cominciammo a mettere insieme le tessere, a raccogliere testimonianze dirette (Bruno Pizzul, che nel ’70 era al suo esordio mondiale; il figlio di Nando Martellini, col quale avevo avuto un affettuoso rapporto personale e lavorativo; il leggendario Direttore Generale Rai dell’epoca, Ettore Bernabei). Volevamo capire le vere ragioni per cui, all’improvviso, a Carosio erano state tolte le telecronache azzurre, passate a Martellini; e soprattutto andavamo convincendoci che alla base ci fosse un qualche equivoco.
Le instancabili ricerche d’archivio di Frisoli, che hanno incrociato giornali e reperti radio e tv dell’epoca, sommate alle testimonianze dirette ci hanno consegnato la soluzione del giallo. Come indicato chiaramente, infatti, sia da un articolo di Enzo Tortora (che aveva il dente avvelenato col d.g. Bernabei che lo aveva cacciato su due piedi dalla conduzione della D.S. per un’intervista polemica rilasciata al settimanale “Oggi”), sia da una lettera all’Unità del famoso attore e drammaturgo Carmelo Bene, Carosio aveva al massimo definito “etiope” (anche se un po’ stizzito) il signor Tarrekegn mentre venivano segnalate espressioni inopportune pronunciate non in TV ma alla Radio. In particolare, Bene si scagliava contro la frase “E’ stata, si può dire, la vendetta del Negus” detta nel dopo partita alla Radio, sollecitando l’intervento dell’ambasciata etiope contro questo da lui definito “rigurgito di colonialismo”.
E probabilmente l’ambasciata etiope si fece sentire, protestando con la Rai ma, altrettanto probabilmente, confondendo mezzi e persone. Non Carosio ma chi, allora? L’inarrestabile Frisoli un giorno di tre o quattro anni fa mi invia un file audio della tribuna stampa radio di quella partita. In essa, Antonio Ghirelli, allora direttore del Corriere dello Sport e, successivamente, portavoce del Presidente Pertini al Quirinale e poi direttore del TG2, dice due volte: “Se vogliamo scherzare, dobbiamo dire che è stata la vendetta del Negus”.
In quel file d’epoca c’era, dunque, la pistola fumante. Ma non era stato Carosio a premere il grilletto.
E’ così che è nata l’idea, realizzata grazie alla collaborazione di un bravissimo regista di Parma, Marco Caronna, di travasare il tutto in uno spettacolo teatrale che non è solo un monologo ma anche un dialogo e contiene documenti audio e documenti video. Che raccontano la storia straordinaria e malinconica del capostipite di tutti noi radio-telecronisti italiani. Alle cui parole, al cui talento, tutti noi dobbiamo tanto. E infatti, teatralmente, il sipario cala sulle note struggenti di “Non dimenticar le mie parole”. Per non dimenticare un grande professionista.
Massimo De Luca