“Quello che hai fatto quest’anno è pazzesco: quattro mesi in viaggio senza tornare a casa, passare da una ‘bolla’ all’altra, fare un test ogni quattro giorni e ti sei qualificato al miglior torneo dell’anno, sei entrato nella top ten, hai realizzato mille sogni”. Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. O almeno, la dedica di Eugenia De Martino, la fidanzata bionda che conturba qualsiasi sguardo maschile dai 5 ai 90 anni, aumenta ancor di più l’ego del piccolo-grande Diego Schwartzman, la rivelazione del 2020.
Che, per arrivare in alto, a una compagna così, parte dalle sedute yoga e dalla abilità come cuoco (dicono), e per assurgere al vertice del tennis, parte da molto in basso, da un metro e 70 scarsi d’altezza, costruendosi pezzo a pezzo, seminando sulla madre terra (rossa) dedizione e umiltà, per crescere, pian pianino, più servizio, più continuità, più spinta, più soluzioni, più fiducia dentro di sé, più considerazione fuori. Sempre a piccoli passi da Pollicino, Schwartzman ha scalato la classifica, dai top 100 del 2014 al record di numero 8 del 12 ottobre (oggi 9), è stato l’unico a battere quest’anno Rafa Nadal sulla terra battuta, ha raggiunto la prima finale “1000” e la prima semifinale Slam, s’è strappato di dosso l’etichetta di terraiolo dimostrandosi giocatore ogni superficie, è diventato il primo tennista d’Argentina, complici i soliti guai fisici di Juan Martin del Potro.
Dopo il 2020 da favola, con tre finali perse su tre, compensate da orgoglio, forza di volontà, cuore, coraggio e selvaggio istinto di volersi migliorare costantemente per essere la miglior versione di se stessi, Diego che porta quel nome “al 99% per Maradona”, ha zittito finalmente tutti i suoi denigratori.
Chi ha il sangue da sopravvissuto del bisnonno materno, ebreo polacco che sfuggì al campo di concentramento scappando dal treno che deragliò, strada facendo. Chi è nato a Villa Crespo, uno dei più grandi e popolosi quartieri di Buenos Aires (dove tuttora risiede). Chi ha saputo rialzarsi dopo la crisi e la svalutazione del “peso” che ha messo in ginocchio la sua famiglia benestante nel 2001. Chi ha dato ragione ai sacrifici di mamma Silvana che l’ha scorrazzato in auto per tutti i tornei del paese per aiutarlo a realizzare i suoi sogni auto-finanziandos realizzando braccialetti di gomma e vendendoli alle sue partite. Chi ha saputo vincere i demoni che aveva dentro, non conosce limiti, non ha limiti. Diego lo grida subito al mondo, dalle gare juniores a quelle di primo livello ATP: gli altri sono sempre più alti e potenti, il mondo lo irride per le sue misure, e lui fa leva su umiltà e sacrifici. Ti guarda sfrontato e ti dice: “Ho anch’io le mie armi”. Ieri, come oggi.
Così, l’1 maggio 2016 firma il primo torneo il “250” sulla terra di Istanbul contro Grigor Dimitrov, rimontando un set e un break di svantaggio e schiantando il bulgaro per 6-0 al terzo, anche se tutti parlano piuttosto di “Baby Fed” e dei gesti di rabbia del piccolo argentino.
“Una volta lanciò le forbici verso la faccia del fratello”, ricorda la madre. “Verso i compagni lanciava di tutto, dalle bottiglie alle racchette alle sedie”, raccontano al Nautico Hacoaj. Rabbia pura da frustrazione, vulcano in ebollizione. Diego si carica, si auto-determina.
Potrebbe accontentarsi del numero 60-70 del mondo, ma vuole di più, molto di più: assolda come coach l’ex pro Juan Ignatio Chela e come preparatore atletico Martiniano Orazi (ex di Del Potro). Deve migliorare dove può: resistenza e reattività, concentrazione e intensità, strategia e percezione. Prende un po’ coraggio coi successi Challenger a Barranquilla e Montevideo, e lo scalpo di Goffin sulla strada della finale “250” di Anversa.
Nel 2017, gioca molto di più, ma vince pochissimo, fino alle semifinali degli Us Open dove infila Cilic e Pouille fermandosi contro Carreno Busta; poi tocca le semifinali a Tokyo e la finale ad Anversa battendo il vecchio Ferrer e il giovane Tsitsipas.
Nel 2018, cresce ancora un po’: vince il “500” di Rio e al Roland Garros si ferma ai quarti contro l’idolo Rafa Nadal, ma poi non brilla sul veloce. Nel 2019, batte Thiem nella sua Baires ma cede in finale a Matteo Berrettini, che però regola a Roma, arrivando alle semifinali contro Djokovic, mettendo un sigillo importante col titolo sul cemento di Los Cabos e i quarti agli US Open dove castiga Zverev e viene stoppato dal solito Rafa, per poi esaltarsi ancora con la finale sul veloce indoor di Vienna. Che perde solo al terzo set contro il beniamino di casa Thiem, 5 del mondo.
Il potente austriaco è il nuovo Nadal, un esempio di abnegazione come lui, un amico: Diego ci perde tanto e ci vince poco, ma ci si allena più che può. Per imparare a uscire dai pesanti scambi da fondocampo, soprattutto sulla delicata diagonale di rovescio, per alzare il livello della risposta, per inventare qualche fuga a rete.
Gli serve, eccome se gli serve: quest’anno, a Brisbane lo batte prima di cedere nei quarti a Medvedev, quindi, agli Australian Open, s’arrende solo a Djokovic. A Cordoba, cede in finale al potente Garin, e a Baires, paga a caro prezzo la maratona di quattro ore e quattro match point salvati contro Cuevas: si strappa un adduttore e rinuncia alle semifinali.
E’ il suo primo grave infortunio, che gli fa saltare gli altri tornei sudamericani e la Davis. E, al rientro dopo il lockdown, sul cemento di New York, va in crisi: perde al secondo turno al torneo mascherato da Cincinnati e poi all’esordio agli Us Open contro Norrie, facendosi rimontare da due set a zero.
La tv americana lo riprende in tribuna, con aria sconsolata, mentre osserva, assente, un match. “Mi sono seduto con Juan (coach Chela) e Marti (Orazi), e abbiamo corretto tutto ciò che doveva essere corretto, dove non mi sentivo a mio agio. Io sono migliorato molto anno dopo anno, a poco a poco, in gran parte grazie al mio team di lavoro, che trova sempre un modo per motivarmi e incorporare cose nuove”.
Così, a Roma sorprende nei quarti Rafa, indietro di preparazione, sfruttando i campi umidi e lenti del Foro Italico, boccia Shapovalov e poi cede in finale al “Cannibale” Djokovic e, al Roland Garros vince il braccio di ferro contro Thiem, di forza, di nervi, di cuore, con un 6-2 al quinto set dopo cinque ore epiche. Anche se poi nella semifinale contro Rafa non trova scampo.
E, coi punti ATP guadagnati con la finale sul veloce indoor di Colonia, battendo i ben più quotati Fokina ed Aliassime, e i quarti a Parigi-Bercy, superando Gasquet e ancora Fokina, si auto-promuove alle ATP Finals. Dove non vince una partita nel girone di ferro contro Djokovic, Zverev e Medvedev ma sfodera un sorriso aperto da un orecchio all’altro di chi ha comunque già vinto molto, molto di più della vil pecunia, che pure ammonta a un milione e mezzo di dollari in un anno solo.
“Schwartzy” entra nella storia della sua Argentina come simbolo positivo del grande lavoratore che realizza i sogni senza il talento fisico o tecnico dei famosi predecessori, come rivalsa di un’intera nazione che, con tanti problemi economici, non può aiutare i suoi amatissimi figli, li abbandona ognuno al suo destino, alla loro forza di volontà, a rimanere a lungo lontano nel mondo a trovare le soluzioni, a essere più forti.
Come il polso e il cuore del piccolo-grande Diego. Che quando il suo Maradona ha ornai le ore contate gli manda struggenti messaggi di coraggio, in nome della squadra del cuore, il Boca Juniors, e del calcio. Che adora.
*articolo ripreso da www.supertennis.tv
**foto da Getty Image riprese da www.supertennis.tv