Vorrei promuovere una raccolta di firme per chiedere che i giocatori più forti restino in campo più a lungo. L’idea è nata quando, nei quarti di finale di coppa Italia, Rakim Sanders di Milano, probabilmente il numero uno della attuale serie A, è stato sostituito dopo 6’, in piena estasi agonistica, dopo aver prodotto un 3/3 da tre punti.
Avrebbe mai potuto essere già stanco? Milano, grazie a lui, aveva già preso il largo contro Brindisi ma ormai la legge della pallacanestro moderna dice che appena il vantaggio arriva a una decina di punti, si cambia chi lo ha prodotto invece che mettere al sicuro la gara. Non succede solo in Italia ma in tutta Europa come ho già raccontato in un articolo che trovate sul sito dell’Eurolega, Euroleague.net. Nel nuovo millennio, limitare il minutaggio dei singoli allungando le rotazioni fino a 10 giocatori è considerato il segreto imprescindibile di ogni squadra di successo. La spiegazione è banalmente semplice: si disputano sempre più partite ad un ritmo superiore, il dispendio fisico e mentale delle prestazioni è aumentato quindi ogni allenatore vuole più giocatori per utilizzarli meno minuti e averli sempre al massimo del loro potenziale.
Così, anche se giocano molto bene ma la squadra va avanti… li tolgono. Siamo sicuri che sia questo il modo per interpretare al meglio il gioco elevandone lo spettacolo? Assecondare gli stati d’animo, le necessità e i momenti di grazia di un giocatore, soprattutto se importante, non è più vantaggioso che vederlo raffreddarsi e magari immusonirsi in panchina? Non è forse dai continui cambi di quintetto e di assetti che nasce la difficoltà di molte squadre nel produrre e prolungare sui 40’ una qualità sufficiente di pallacanestro, fatta invece di alti e bassi clamorosi? Non è evidente che se una squadra utilizza più a lungo e assieme i giocatori più forti, aumenta l’efficacia e offre uno spettacolo migliore al pubblico? Ha senso pagare centinaia di migliaia di euro un big per utilizzarlo poco più di metà partita? Non è forse spiegabile con la presenza a sprazzi in campo di alcuni atleti dalle caratteristiche particolari e che richiedono quintetti stabili e giochi ad hoc, tipo Raduljica di Milano per spiegarci, la loro crisi? Ma i giocatori si stancano, ci sono troppe partite, gli allenatori vogliono sempre il massimo quindi bisogna fare così… Non sono convinto. Non ne sono convinto in Eurolega figuriamoci nel campionato italiano dove la maggioranza delle squadre disputa una gara la settimana e chi fa la Champions league Fiba, al di la della legittima enfasi di chi partecipa e la commenta, affronta una competizione di medio livello.
Lo ammetto, vengo da una pallacanestro differente. Venticinque anni fa, nel campionato di serie A, c’erano 70 giocatori che restavano in campo almeno 32.8 minuti di media, oggi sono 8. Non riesco a considerarlo un ineluttabile segno del progresso. Il numero di partite, per molte squadre che non disputano l’Eurolega, non è aumentato a tal punto da giustificare un calo così drastico del minutaggio massimo dei giocatori. Eppure i migliori stanno in campo sempre di meno: ce n’erano 69 oltre i 30’ a partita 20 anni fa, sono diventati 27 nel 2007 e 19 oggi. Ma siccome tutto questo viene considerato indispensabile nel basket “moderno” vi faccio una domanda: perché nella Nba le stelle giocano molto più che da noi? Ho appena assistito ad una grande sfida Houston-Cleveland dove due tra i candidati Mvp della stagione, James Harden e LeBron James, sono rimasti in campo 40’ a testa, con Ariza e Irving rispettivamente a quota 39 e 37. LeBron è utilizzato in media 37.5 minuti a partita, Harden 36.5. Ma, considerando i 48’, è la cifra totale che rende meglio l’idea: Harden, al momento in cui scrivo, ha accumulato 2445 minuti in stagione, LeBron 2290. Sempre servendoci di Milano come paragone, i più spremuti da Repesa sono Kruno Simon che, dopo l’infortunio, calcolando le tre manifestazioni, è stato superato da Hickman, 1059’, e McLean, 1033’ totali. Meno della metà dei loro colleghi americani. Da noi, chi è stato più a lungo in campo è Marquez Haynes che ha appena scollinato i 1200 minuti, sorpassando Joe Ragland. La realtà è che i nostri giocatori, salvo casi particolari (tipo McLean per costituzione o un Kaukenas per età) restano ben al di sotto del limite fisiologico della stanchezza e del calo di rendimento. Nella Nba, ci sono 78 giocatori utilizzati più di 30’ a partita e tutti i migliori viaggiano oltre i 33’ a fronte di un numero ben superiore di gare (Cleveland mentre scrivo ne ha giocate 66, Milano 52 supercoppa compresa, chi ha fatto la Champions 42, una big senza attività internazionale come Reggio Emilia 28).
Siamo un mondo conformista, spesso facciamo cose perché le fanno anche gli altri. Senza per forza ritenere positivo che vent’anni fa giocatori come Myers, Andrea Meneghin, Pozzecco, Esposito, Rossini (o anche stranieri come Mike Mitchell o Anthony Bowie) spendessero in panchina al massimo 5-6 minuti a partita, di certo il modo attuale di costruire le squadre, dando per scontato che tu rinunci per una parte considerevole della gara ai tuoi giocatori migliori, è più complicato e dispendioso. Soprattutto potrebbe contribuire a quello che noi definiamo come “crisi” o abbassamento del livello del nostro basket. Da spettatore, non mi dispiacerebbe di godermi più a lungo i giocatori più forti. Se si lasciasse in campo chi sta giocando meglio, e se questa sua capacità si ripetesse per un numero elevato di gare, avremo trovato anche i leader dei quali tutti lamentano la mancanza. Penso che gli atleti si sentirebbero maggiormente realizzati e gratificati, le gerarchie sarebbero più chiare e il gioco meno spezzettato e ondivago senza che questo metta a repentaglio la salute di chi gioca e i risultati delle squadre. Credo che varrebbe la pena di ragionarci seriamente quando se ne deve costruire una.
LUCA CHIABOTTI