“Vi ho bruciati tutti. Come se vi sparassi un colpo di pistola in testa”. La fulminante, straripante, inarrestabile, affascinante, volata di Ousmane Dembelé, freccia francese 21enne del Barcellona contro il Tottenham non poteva passare inosservata – anche per la felicità pur passeggera che ha generato nei tifosi interisti – ma certo ha colpito più per il gesto tecnico, inclusa la finta e l’imparabile gol finale, che per quello con la mano destra portata verso la tempia con il quale il campione del mondo 2018 ha accompagnato l’impresa. Del resto, le maniere d’esultare sono così diverse e si rinnovano di continuo che è davvero difficile segnalare tutte.
Chi va a pensare all’ultima stranezza di un calciatore – mamma francese con discendenza da Mauritania e Senegal, papà del Mali – molto particolare di suo, fenomeno precocissimo che ha ereditato la maglia numero 11 di Neymar, il secondo più pagato della storia dopo il connazionale Pogba (105 milioni di euro al Dortmund, più altri 40 di bonus al giocatore), quello che continua a pagare multe – anche di 100 mila euro – per i continui ritardi, come l’ultima di due ore all’allenamento di rifinitura proprio prima del match contro gli Spurs?
Del resto, il gesto di esultanza di Dembelé non è inedito. Lo ha ereditato dal basket Nba, specificatamente, da Carmelo Anthony, l’asso di origini portoricane nato a Brooklyn e cresciuto poverissimo, che lanciò la moda all’Olimpiade di Rio di due anni fa. Anche allora quella scena non fu approfondita, che perché lui negò che il gesto fosse relativo alla pistola, e tutti furono contenti della spiegazione. Senza chiedersi perché un atleta debba mai portarsi tre dita alla testa con un pollice che sporge se non per indicare proprio la canna e il cane di una pistola figurata?
È sicuramente il segnale di una definitiva e cruenta chiusura dei conti, seguendo la legge violenta della strada. Quella che Anthony conosce bene perché l’ha vissuta a lungo, quella dalla quale è emerso grazie al basket, ma che non dimentica. Tanto da fare sempre tantissima beneficenza per la sua gente e il suo ex quartiere. Tanto, tre anni fa, da sfilare per le strade della sua Baltimora bruciata dai tumuli per chiedere la pace nella città infestata dalle gang. Sbandierando una felpa con la scritta Cassius Clay.
Lui, “Melo”, come lo chiamano tutti da 15 anni nell’Nba, che ha collezionato la squalifica record di 15 giornate per aver sferrato un pugno a un avversario e chissà tanti pugni ha dato da ragazzo per sopravvivere. Lui che volava come oggi fa Dembelé sul campo di calcio e poi bruciava tutti con la sua classe. Ci sta di volare la retina del tabellone o la rete della porta, gli avversari e la vita, e poi di esultare come se sparassi al mondo un definitivo colpo di pistola in testa?
*articolo ripreso da agi.it