Sotto il cielo plumbeo di Londra, la tempesta è radente al suolo. È il XV di Sua Maestà che avanza metro dopo metro, con una ferocia pazzesca. La fanteria è la falange più temuta di tutti. Avanza compatta la mischia chiusa, la maul non è da meno e quando diventa rolling è come dover maneggiare un alveare gigante: le api, o meglio i giocatori inglesi, possono uscire in ogni momento e schiacciare in meta. La fisicità dei bianchi d’Inghilterra è tremenda. L’Italia, arrivata a Twickenham dopo la convincente prestazione contro i francesi, è investita dalla tempesta english. Gli azzurri sono costretti a indietreggiare quasi costantemente, lasciando terreno al nemico per tutto il primo tempo. Anche il prode capitano Michele Lamaro è costretto ad uscire per una gran botta subita. Le speranze di recupero sono pressoché inesistenti.
Non lo sono affatto, però, per Sebastian Negri, che nei raggruppamenti continua a guadagnare metri su metri, galvanizzando così i compagni che si rendono conto che l’Inghilterra si possa ancora battere. La carica la suona almeno tre volte. Prima atterra in un sol colpo sia Ellis Genge, un piloncino di 1 metro e 86 per 120 kg, sia Kyle Sinckler, l’altro pilone, 1,81 per 122 kg. Poi, buca il muro bianco degli inglesi uscendo di corsa dalla nostra linea dei 22, dando così il via a una delle più belle azioni dell’Italia contro l’Inghilterra nel tempio di Twickenham.
In mezzo, un duello rusticano d’altri tempi, degno del rugby dilettantistico degli anni ’70 e ’80, fatto di maglie di cotone, stadi in legno traballante (però quanto erano belli?) e, andando ancora più indietro negli anni, il pallone con la camera d’aria fatta con la vescica di maiale, ricoperta di cuoio lavorato a mano. Negri placca durissimo Owen Farrell, il mediano d’apertura di Sua Maestà, che gli ringhia addosso come un pitbull inferocito. I due sono a terra uno sopra l’altro, si tengono a vicenda fissandosi con occhi di brace. Tutto questo mentre il gioco si sviluppa vicino a loro regolarmente. Quando l’azione finisce, i due guerrieri sono ancora lì, a un passo dalla scazzottata. Limite che viene oltrepassato dai compagni di squadra, con gli azzurri a prendere naturalmente le parti del loro compagno e gli inglesi a difendere Farrell (per meglio dire unirsi alla contesa). La breve rissa che ne nasce la dice lunga sulla determinazione degli inglesi di vincere questa partita contro un’Italia che ora finalmente rispettano, giocando al meglio dei loro uomini e delle loro possibilità. Ma la dice lunga anche sulla voglia degli azzurri di riaprire una partita durissima, guidati dal loro condottiero.
La grande prestazione di sacrificio di Negri è infatti evidente sia in attacco sia in difesa. In attacco, l’Italia ha un terza linea che si proietta davanti a tutti, raccoglie il pallone e si scaraventa contro la prima linea di difesa avversaria, cercando di guadagnare metri prima del raggruppamento a terra successivo al placcaggio e precedente la fase che si svilupperà dopo. Con Sebastian di nuovo in piedi pronto per un’altra azione. Agisce quindi da ball-carrier e lo fa davvero bene. Le statistiche dicono che contro la Francia ha portato sedici volte il pallone e contro l’Inghilterra quattordici, macinando metri su metri (“Il ruolo di ball-carrier mi esalta, quando il mio lavoro libera spazio per un compagno ho grande soddisfazione”). In difesa, la sua grande prestanza fisica ha permesso all’intera squadra di arginare la tempesta.
A Twickenham la partita di Negri è stata ampiamente sottolineata dalla stampa britannica, al punto che è entrato nel XV ideale dei migliori giocatori del secondo turno del Sei Nazioni. Planet Rugby, sito inglese specialistico tra i più diffusi e apprezzati, ha sottolineato la grande prova del terza linea del Benetton. “Sembra forte come un toro, ma in realtà è forte come due”, ha detto di lui l’opinionista inglese (ed ex giocatore) David Flatman. Senza Negri, fonte primaria delle offensive azzurre e muro eccezionale contro un’Inghilterra arrembante, difficilmente avremmo arrestato nel secondo tempo l’emorragia dei primi 40 minuti, che ci ha invece restituito l’Italia migliore. Avanti di questo passo dovremo fargli un monumento, ma per non fare brutta figura quando saremo all’inaugurazione, scopriamo meglio chi è Sebastian Negri.
Classe 1994, Sebastian è un ragazzone di 1 m e 96 per 108 kg nato in Zimbabwe da padre italiano (milanese) e madre anglo-zimbabwese. L’infanzia nell’ex Rhodesia gli ha lasciato ottimi ricordi (al punto che la canzone che lo descrive meglio, a suo dire, è “Hakuna Matata“, la colonna sonora del film d’animazione Il Re Leone) e un trauma improvviso. La vita lenta e serena nella fattoria di famiglia e le silenziose notti stellate, racconta Negri, si arrestano quella sera maledetta, quando ha solo 8 anni, e una gang di veterani di guerra irrompe per confiscare la fattoria. Attorno al 2000 sono infatti numerosi gli assalti dei sostenitori del presidente Robert Mugabe alle proprietà dei bianchi, terre che sentono loro e rubate dai bianchi durante l’era coloniale. Arrivano quindi alla porta della famiglia Negri. Il padre di Sebastian, Janusz, accompagna la moglie e i quattro figli in macchina e poi via nell’oscurità. Negri non rivedrà più la sua casa. “Ricordo mio padre che riunì tutti noi in salotto, dicendoci di stare calmi e spiegandoci che avremmo dovuto andarcene per un po’, come per una vacanza. Stava cercando di non spaventarci. Mi disse di andare nella mia camera a fare una rapida valigia, assicurandomi di prendere con me la mazza da cricket e il pallone da rugby. Poi entrammo tutti in macchina e mentre sentivo degli spari fuggimmo. Fu una fortuna riuscire a scappare”.
La famiglia Negri si trasferisce ad Harare, la capitale dello Zimbabwe. La mamma del flanker azzurro, Diana, torna però alla fattoria subito il giorno dopo per recuperare i loro averi e i nuovi “inquilini” la tengono in ostaggio per dodici ore. “Fu orribile. Due anni dopo, i miei zii rischiarono di venire uccisi: quei delinquenti ruppero le braccia a mia zia e tagliarono un pezzo dell’orecchio di mio zio”. La famiglia trasloca ancora, questa volta in Sudafrica. Insomma, la cultura e la formazione di Sebastian sono un complesso melting pot di Europa e Africa, gusto italiano e durezza contadina. Ed è proprio così che Negri gioca a rugby. È in Sudafrica che cresce rugbisticamente, al prestigioso Hilton College di Durban e poi nella giovanile della Western Province. In seguito si sposta in Inghilterra, a studiare e giocare nell’Hartpury College, ed è proprio lì che nel 2016 il ct azzurro O’Shea lo scova e gli regala il primo cap, la prima presenza con la nazionale italiana. Poi nel 2017 finalmente in Italia, al Benetton Treviso, dove è cominciato il suo lavoro con l’allenatore oggi ct azzurro Kieran Crowley. “Credo che Kieran abbia creato un grande gruppo, così come era successo quando ero con lui al Benetton. Un gruppo dove è fondamentale essere una brava persona prima di un bravo giocatore o allenatore”
L’Italia gli ha dato una famiglia di valori solidi, una patria sicura e un’ottima accoglienza: “Per questo giocare in azzurro mi porta grandi emozioni. L’Italia mi ha dato e mi sta dando tanto, voglio restituire sul campo il mio debito. I miei genitori sono stati grandi modelli per me. Hanno sempre affrontato le difficoltà col sorriso, il motto è sempre stato: ‘Andiamo avanti, restiamo uniti’. Hanno sostenuto me e i miei fratelli, ci sono sempre stati nei duri momenti in cui riemergeva il ricordo dell’incubo passato in Zimbabwe”. Ma è un ricordo di un passato ormai lontano. Sebastian, nel frattempo, ha imparato a portare la palla in mezzo alla tempesta.