Quel trionfo merita, quindi, una rilettura complessiva e una messa a fuoco intelligente, che si basi sui fatti, non sulle suggestioni, perché la tragedia finale è legata a quei trionfi.
Dopo Oropa, Pantani continuò a dare spettacolo. Arrivò solo all’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio. Poi sabato 5 giugno 1999, alle 7.25 del mattino, subì un controllo “a tutela della sua salute”, il suo ematocrito risultò 52% e, poiché il valore-limite concesso era 50%, fu escluso dalla corsa perché “non idoneo”. Fu l’inizio del tracollo.
I Carabinieri dei NAS scoprirono un file del prof. Conconi, relativo al periodo 1994-95, da cui risultava che l’ematocrito di Pantani a gennaio – quando non si correva – era intorno al 41%. Nel Giro del 1994 Pantani conquistò le sue due prime vittorie. Il 4 giugno arrivò solo a Merano attaccando in discesa. Il 5 vinse all’Aprica, dopo essere passato primo sul Mortirolo, con 2’52” su Chiappucci. Sul file di Conconi i Carabinieri trovarono tre valori relativi a quel periodo. Il 23 maggio Pantani aveva 54,5% di ematocrito, il 30 52,6% e il 13 giugno 58,0%. Tre valori fuori-norma. Poi andò al Tour, salì sul podio e tre giorni dopo l’ematocrito era 57,4%.
L’anno dopo, quando il 18 ottobre cozzò contro un’auto nella Milano-Torino e finì in ospedale con tibia e perone fratturati l’ematocrito era 60,1%. Poi la Commissione del Senato francese che fece analizzare i campioni di sangue del Tour del 1998, che Pantani vinse, trovò l’Epo nel suo sangue e in quello di altri “campioni”. Al Giro del 2001 nell’hotel di Montecatini fu trovata una fiala di insulina riferibile a Pantani.
Sul piano sportivo, dunque, Pantani, non merita l’aureola. Ha barato. Non è un’attenuante il fatto che molti dei suoi avversari baravano come lui: Armstrong, Virenque, Zulle, Zabel, Ullrich, Gotti, Ugrumov, Casagrande, Garzelli, Rebellin, Heras, Rumsas…Era un ciclismo truccato da Conconi, Ferrari, Fuentes…che, travestiti con i paramenti della scienza, facevano esperimenti sugli atleti e lucravano sulla loro pelle.
Marco Pantani incominciò così la sua discesa. Divenne una formidabile macchina da soldi di cui molti approfittarono: sponsor, direttori sportivi, compagni di squadra, media, familiari. Era protetto da una rete di complici, che, poi, nel momento del bisogno, lo lasciarono cadere, anzi precipitare. La cocaina fu solo la causa finale di una parabola senza speranza.
Finì nella spirale della droga. Quando morì molti si spartirono i meriti dei suoi successi, ma non uno riuscì a dire una parola di autocritica, non uno osò sussurrare: “Forse avrei potuto aiutarlo…Forse avrei potuto dargli un consiglio e non l’ho fatto”. La verità è che Pantani fu lasciato solo con i suoi sogni di ragazzo, con i fragili miraggi, con le tentazioni e la capacità di sbagliare della giovinezza.
La vita conta di più dello sport. Il processo di autodistruzione di Pantani, tra spettatori incapaci e inerti, è il più doloroso della storia dello sport che noi abbiamo conosciamo.
Per noi Pantani è molto di più di un eroe sportivo. È l’eroe della solitudine, del dolore, della tragedia. Ha molto sofferto. Per questo ci è caro. Merita comprensione, non l’epinicio.
È un personaggio degno di Sofocle o Shakespeare, non dei trombettieri del re che suonano sempre lo stesso festoso motivo con livree scintillanti di lustrini. Pantani è Aiace, Filottete, Re Lear. Ha peccato di “ýbris”, di superbia. Ed è stato raggiunto dalla “nemesis”, la vendetta divina. È caduto. Ha vagato solo in cerca di un sentiero di salvezza fino al momento supremo.
Pantani non è un modello per i bambini. Eppure la sua storia è esemplare. Va raccontata nelle scuole. Tutta. Integrale. Perché, come nella grande tragedia greca, produca in chi la scopre il desiderio della catarsi, la purificazione.
Claudio Gregori