La storia è nota, ma sempre affascinante, e chissà quanto la racconteremo ancora e ancora. C’era una volta un ragazzo, nato a San Candido, alle pendici delle Dolomiti, cresciuto a pane e neve…
Detta da lui, da Jannik Sinner, il più prodigioso talento precoce del tennis italiano di sempre: “A 3 anni e mezzo sciavo e, pochi mesi dopo, imboccavo già la pista nera” ricorda.
Le premesse affinché l’enfant prodige della Val Fiscalina diventasse l’erede di Alberto Tomba c’erano tutte: a 7 anni conquista il campionato italiano Baby e a 11 è vicecampione della categoria Ragazzi. Però ama anche il tennis e, appena teenager, comincia a dedicarsi anima e corpo a questo sport. Fino a escludere un futuro brillante che sembrava ormai certo in slalom gigante per un motivo semplice: “Con la racchetta mi divertivo di più, non per niente il tennis è un gioco. Lo sci, no: una discesa dura due minuti al massimo, ti lanci dal cancelletto e solo al traguardo scopri classifica. Se poi inforchi una porta, in un attimo butti via la quantità industriale di lavoro che ti ha sfiancato; il minimo errore ti trascina giù al decimo posto e manda all’aria l’intera gara. In un match, invece, guardi negli occhi l’avversario, un doppio fallo non compromette il risultato, hai a disposizione continue occasioni per recuperare. E vincere”.
Verbo, l’ultimo, da sempre coniugato all’imperativo categorico per Sinner, altrimenti il fan di Andreas Seppi («un esempio: ha portato il nostro Alto Adige in alto nel tennis) e Roger Federer (che l’ha definito “uno spettacolo”) non si sarebbe trasferito a 13 anni e mezzo in Liguria. Meta: il Piatti Tennis Center di Bordighera, tra le migliori academy del pianeta. Non un luogo a caso: lì, nel 1878, è sorto il primo campo da tennis d’Italia, ancora perfetto. “A quell’età allontanarsi 650 km dalla famiglia è stato un sacrificio enorme” al quale ne sono seguiti tantissimi, per aggiudicarsi a soli 19 anni il Sofia Open, con annesso primato di azzurro più giovane a trionfare in un torneo ATP, ed entrare nel 2021 nella top ten mondiale.
“Non è stato facile costruirmi da solo, come atleta e come uomo, però, non rimpiango niente e non cambierei la mia vita di una virgola: ho trasformato la mia grande passione in mestiere”. Nel giro di poche stagioni: “Al posto dei trofei juniores, ho puntato subito a sfidare i campioni, Uscivo dal campo distrutto, ma carico a mille e orgoglioso grazie alle lezioni che avevo imparato dai maestri. Ho un senso del dovere molto forte, che mi hanno insegnato i genitori. Mamma cameriera e papà cuoco in un rifugio, entrambi hanno fondato il loro mestiere sulla disciplina ferrea e mi hanno educato a portare a termine con impegno e onestà ciò che inizio. Costi quel che costi”. Si chiama cultura del lavoro, che non ha nulla da invidiare a quella del libro, e ha forgiato un talento cristallino di 191 cm per 75 kg: anticipo fulmineo, servizio a 200 km orari, dritto pregevole e il rovescio più potente del circuito.
La maturità del fuoriclasse 22enne spicca dalle sue parole sagge esattamente come dall’atteggiamento impeccabile che lo contraddistingue in campo. A chi lo definisce glaciale, lui risponde così: “Non sono freddo, mantengo la calma, condizione indispensabile per non subire la pressione, affrontare con lucidità ogni game ed evitare di perdere il controllo nella frenesia tra un punto di vantaggio e uno a sfavore, la difesa e l’attacco”.
Testo tratto da Icon – issue 74 – Sports Cult