Genius è cambiato tanto, com’è giusto che sia. Da ragazzo precoce, impertinente, viziato dal talento, da SuperBrat, nemico pubblico numero 1 del Tempio (Wimbledon), opposto all’impeccabile Bjorn Borg, a SuperMac, numero 1 del tennis, abilissimo regista delle emozioni e dei ruoli. Da fervido appassionato della vita a papà modello, da contestatore ad accorto telecronista, da appassionato d’arte ed improbabile musicista a simbolo positivo di un intero sport, che addirittura salva l’ex nemico dai guai finanziari, da egocentrico all’ennesima potenza anche sul circuito dei veterani a marito che applaude pubblicamente la moglie (nell’ultima autobiografia).
La parabola di John McEnroe, dal ribelle 18enne al buonista 60enne, è davvero impressionante. Così come la distanza fra i capelli ricci, irrimediabilmente disordinati, di allora e questi grigi, corti, classici di oggi.
Lo chiamavano Johnny Mac, era genio e sregolatezza, col suo inimitabile braccio mancino dal timing particolare, il servizio straordinario, dalle mille soluzioni, con la racchetta che imprime un effetto unico, rovesciandosi nelle sue mani come farebbe un prestigiatore, e le volate a rete a chiudere la mistica volée. Lo amavano e lo odiavano, quasi fifty-fifty – dagli spalti, davanti alla tv e negli spogliatoi -, per le proteste continue, gli smoccolamenti da moccioso, i litigi con gli arbitri, la pressione extra sugli avversari, la capacità di spegnere e riaccendere l’interruttore di quelle magnifiche magie tennistiche.
Negli anni 80, ha cambiato il tennis e anche lo sport, allargandone i confini e rendendo popolare quella cosa extra-lavoro coi pantaloncini e le magliette da corsa, che poi è diventata parte integrante della nostra vita, dal vestiario alle abitudini, ai vocaboli. Infatti la sorpresa più grossa nella storia dell’abbigliamento sportivo fu che gli short jeans non sfondarono su di lui ma sul punk di Las Vegas, Andre Agassi.
Cos’è rimasto del primo McEnroe che esplodeva da dilettante, nel 1977, sull’erba più famosa dello sport arrendendosi solo in semifinale contro Jimmy Connors l’antipatico? Intanto il sorrisetto sardonico che gli spunta fuori, da diavoletto impertinente, appena la situazione lo stimola e lo scuote dalla noia. Di cui soffre, come tutti i fenomeni. Eppoi il grande amore per lo sport, tutto lo sport, che ha praticato a iosa da bambino, fino a scegliere il tennis e a non stancarsene mai.
Come conferma quel record congiunto di 77 titoli di singolare e 78 di doppio in carriera e il fantastico bilancio di coppa Davis, con cinque urrà in 12 anni, 30 confronti, 41 successi in singolare, 59 col doppio, dov’ha firmato 14 partite su 15 insieme alla spalla ideale, Peter Fleming. D’accordo, poteva e doveva vincere di più dei suoi 7 Majors, poteva e doveva sfatare il tabù terra rossa/Roland Garros e chiudere nel 1984 il Grande Slam. Ma sarebbe stato normale essere riconosciuto come il numero 1 per meri calcoli aritmetici e storici. E’ molto più difficile riuscirci, così, con la sua sola presenza, la capacità di dire sempre una parola diversa, e nuova, di aprire uno squarcio nella regolarità.
Dov’è finito l’impudente che fu cacciato dal Queen’s per aver ingiuriato l’anziana moglie del presidente del club, colpevole solo di ricordargli che la sua ora di campo era finita? Dov’è quell’uomo perduto che staccò la spina dal tennis per sei mesi nel 1986, al culmine della crisi con quell’impossibile di Tatum O’Neal? Dov’è finito il dio che, in un cieco eccesso di onnipotenza e comunque incontrollabile, fu espulso dal campo agli Australian Open 1990, pagando la squalifica di due mesi dopo le follie agli Us Open 1987? Oggi è un padre e un marito impegnato, di Patty Smyth, musicista e simile nel nome alla ben più nota Patti Smith. Così come John somiglia sempre pù a suo padre, l’avvocato John Patrick senior che tanto ha fatto impazzire, e sempre meno a SuperBrat.
*articolo ripreso da agi.it