Il sospetto è che i dodici soci fondatori siano animai dal desiderio di rivoluzionare l'attuale Champions league, per ottenere ricavi ancor più sostanziosi
Il dibattito sulla cosiddetta Superleague è rivelatore del modo d’essere di Paesi diversi tra loro. Gli inglesi rifiutano l’idea di una competizione blindata, che uccide nella culla il sacro principio della qualificazione sul campo, e minacciano di boicottare i sei club che hanno aderito all’iniziative. A Liverpool, ma anche a Londra, il pubblico si ribella. In Italia, mentre tacciono in attesa degli eventi i sostenitori di Inter e Milan, il popolo juventino esulta, sogna di staccarsi dalla serie A. E’ una posizione incomprensibile, essendo la Juve per definizione la squadra domestica, la più abitata a vincere nel proprio cortile, con trentasei scudetti, tredici coppe Italia e nove Supercoppe. Sono i misteri del calcio degli anni Duemila.
Qualsiasi novità nella formula delle coppe internazionale può essere esaminata senza pregiudizi ideologici. Quel che non si può discutere, se si intende conservazione un minimo di decenza, è la partecipazione per diritto divino, in qualità di soci fondatori. Un’aberrazione. Anche perché i soci non sono tutti dello stesso livello, e molti non hanno nell’albo d’oro neppure una coppa dei Campioni: è il caso dell’Atletico Madrid, del Tottenham, dell’Arsenal. Ed è singolare che, almeno per ora, alla Superleague non abbiano dato la loro adesione grandissimi club come il Bayern e l’Ajax (dieci coppe Campioni in due), né il Psv Eindohven e il Borussia Dortmund, né i Rangers e il Celtic, né il Porto e il Benfica, per tacer del Paris Saint-Germain.
Che razza di Superleague può essere se ne fanno parte solo tre Paesi, con sei club inglesi, tre italiani e tre spagnoli? E com’è anche solo immaginabile tagliar fuori tutto l’Est, dalla Russia alla Serbia, alla Romania, che peraltro una coppa l’hanno anche vinta con la Stella Rossa e la Steaua Bucarest?
Insomma, il frettoloso annuncio della nascita della Superleague mostra evidenti limiti di visione, non solo di cultura sportiva. E allora il sospetto è che, esaurite le prime reazioni e messe da parte di minacce di squalifica della Fifa e dell’Uefa, i dodici soci fondatori siano animai dal desiderio di rivoluzionare l’attuale Champions league, per ottenere ricavi ancor più sostanziosi. Ricchi premi e cotillons. Un obiettivo che non dovrà prescindere dal merito: ci si qualifica nei campionati nazionali, non esistono scorciatoie basate sui titoli né tantomeno sui fatturati. Non è lecito negare all’Atalanta, né al Lens, il sogno di fare un giro in Champions.
Resta il fatto che bisognerà ridimensionare i costi del calcio: ingaggi faraonici, commissioni folli per agenti e procuratori, è lì che bisogna intervenire. Per sostenere l’ingaggio di Ronaldo o Neymar, di Mbappé o Messi, vanno cercate altre strade. Altro che questa Superleague, nata zoppa e destinata ad un futuro tutto da decifrare. Attenzione, comunque: se è vero che il calcio è cambiato, è anche vero che persino gli uomini più ricchi della Terra non si alimentano solo con caviale e champagne. Ogni tanto, vanno in trattoria a cercare la pasta e fagioli.
Enzo D’Orsi