Tutto, o quasi, ha avuto inizio col coraggio di Jakub Jankto, il nazionale della Repubblica Ceca con un lungo passato in Italia (Sampdoria, Udinese, Ascoli) e protagonista del primo grande outing della storia del calcio europeo. Non è successo da noi in Italia, ma possiamo dire che il primo muro è caduto, anche il nostro calcio si è finalmente smarcato da quella forma di omertà che portava molti a dire: “Omosessuali nel calcio? Non ne ho mai visti“. Grazie Jankto, ma il nostro pallone nazionalpopolare deve fare ancora molti passi sul tema dei diritti. Come quello di diventare padre e ad avere il tempo per badare al figlio nei primi anni di vita. È degli ultimi giorni lo sfogo su El Mundo (puntualmente ripreso da Linkiesta) di Pablo Sarabia, attaccante del Wolverhampton, che quattro giorni dopo essere diventato padre di due gemellini è dovuto subito tornare in campo, in una partita nella quale la testa era altrove, con inevitabile incidenza sulla prestazione. “La mia capacità di concentrazione era inesistente. Ora dormo separato da mia moglie perché i pianti notturni dei bambini non influenzino il mio riposo“.
I TRAVAGLIATI DIRITTI IN ITALIA
Da noi la possibilità di restare a casa in paternità è garantita al lavoratore solo dal 2012 e per pochi giorni dopo la nascita del figlio. Inutile girarci intorno, nei nostri luoghi di lavoro (con le doverose eccezioni del caso) chi richiede l’assenza in paternità per più di tre giorni viene giudicato come uno che non ha voglia di lavorare, perché ai neonati pensano le mamme… Se questa mentalità è piuttosto diffusa, nel calcio il problema si acuisce, anzi rimane un tabù.
Ma se Atene piange, Sparta non ride: il calcio femminile prevede la maternità, anche se per una giocatrice si tratta di una condizione fortemente penalizzante. Tra gravidanza, parto e periodo successivo per accudire il bambino e riprendere lo stato di forma richiesta, per la squadra una maternità corrisponde tranquillamente a un infortunio molto grave, di quelli che richiedono uno stop di più di 6 mesi. Il fatto che nessuna delle ragazze della Nazionale abbia figli dice praticamente tutto.
Per fare un salto di qualità non bastano gli slogan, c’è bisogno di un segnale forte. In questo come in altri ambiti socialmente sensibili. Come nella lotta al razzismo, che dopo il caso Acerbi-Juan Jesus ha visto giocatori e allenatori intervistati con la domandina preconfezionata e con la risposta automatica: “No al razzismo in nessuna delle sue forme, il calcio deve dare l’esempio, bla bla…“. Intendiamoci, le intenzioni di Lega Calcio e Federcalcio sono ottime, ma le frasi fatte pronunciate distrattamente dai protagonisti non sortiscono alcun effetto. Per dare una vera scossa, per ottenere qualche risultato concreto, serve una reazione importante, quasi temeraria. Se Maignan, portiere del Milan, viene fischiato e accompagnato da grugniti ululanti, lui e tutta la squadra dovrebbero lasciare il campo, senza farci ritorno dopo 10 minuti. Il primo risultato però sarebbe la sconfitta a tavolino, finendo quasi per passare per fessi… Lo stesso vale nel calcio femminile: quale squadra rinuncerà per prima a una sua giocatrice per 8-9 mesi, quando le avversarie non devono scontare questo “infortunio di gravidanza“?