Piste e pedane ipertecnologiche che a toccarle fanno saltare come cavallette, scarpe con soletta di carbonio la cui progettazione, suppongo, abbia avuto aiuto e supporto dalla Nasa o dal Cern, professionismo dichiarato (a diversi livelli economici, è evidente), allenamento, super-allenamento e scienza dell’allenamento, sofisticata ricerca computerizzata, cura dell’alimentazione, taglio netto e drastico a ogni cattiva abitudine (nessuno fuma un pacchetto di Gauloises al giorno come Guillemot che sconfisse Nurmi), mental coach, esperti per un dolce e proficuo dormire, fisioterapisti pluridiplomati, pluridecorati – e sempre molto ringraziati – e con esperienze solidissime, staff personali affollati, degni di un campione del tennis.
Eppure, sul podio europeo del lungo si andava con la stessa misura, 8.06, che diede a Jesse Owens l’oro in un altro Olympiastadion, quello di Berlino, nel 1936. Ottantasei anni fa.
Andrea Dallavalle porta a Piacenza l’argento nel triplo con 17.04, un centimetro più di Jozef Schimdt della pregiata annata 1960, quando per primo, fendendo l’aria con il suo gran naso, il polacco di radice tedesca varcò la barriera, e Tobia Bocchi va vicino al podio con 16.79, cinque centimetri meglio di Beppe Gentile a Katowice, prima dell’esplosione messicana, quando in un fine settimana diede una scossa anche al record del lungo dell’Arturo Maffei berlinese che teneva duro da trentadue anni.
Ricky Petrucciani, ticinese, amico e compagno di allenamenti di Davide Re a Zurigo, è finito secondo, nei 400 di Matthew Hudson Smith (che continua a mancare il record di Thomas Schonlebe, ormai prossimo ai 35 anni di durata), in 45”03, quattro e cinque centesimi meglio di Otis Davis e Carl Kaufmann, i primi a scendere, con crono manuale, oltre il confine dei 45”: quel doppio 44”9 romano venne poi elettronicamente reso in 45”07 e 45”08. Professione di Kaufmann, cantante di night-club.
Nasce il forte sospetto che noi, maturi o decisamente attempati suiveur, abbiamo avuto la chance di vedere all’opera i grandi talenti originari e di aver avuto il desiderio di studiare le gesta di chi li aveva preceduti in una storia in cui una pratica lieve, non ossessiva, permetteva risultati che oggi dobbiamo guardare con commozione.
Per noi, fortunati pochi come diceva Enrico V prima di una decisiva battaglia, esistono date e luoghi che ritornano: il giorno dei giorni di Ann Arbor, la corsa solitaria di Herb Elliott, l’inerpicarsi nell’aria di Valeri Brumel da Tolbukino, la rivoluzione del Sessantotto scandita da numeri (8.90, 43”86, 19”83) che assumono cadenze degne di un ciclo epico, la lunga e leggera fuga di Filbert Bayi lepre di se stesso, lo svincolo sull’asticella di Rosemarie Witschas a 2.00.
E’ una teoria di volti, di gesti che accompagnano, con la loro naturalezza, un ricordo che non vuol essere nostalgico. Tutti loro sono sempre accanto a noi quando facciamo i conti con la realtà che ci circonda. Urlata, isterica, esaltata per convenienza, lontana.
Giorgio Cimbrico tratto da www.sportolimpico.it (foto tratta da https://www.oasport.it/)