Roberto Mancini come Vittorio Pozzo? Eguagliare il record di nove successi consecutivi alla guida della Nazionale di calcio inorgoglisce il neo ct che, però, conoscendo la storia, ironizza: “Sì, mi mancano soltanto una partita e due Mondiali vinti. Lui è un mito della Nazionale”. Dando un’ulteriore caratura alla propria figura e invitando quasi a indagare su chi fosse questo mitico Pozzo, di cui si parla tanto in questi giorni di ritrovata passione per gli azzurri. Che poi sono diventati anche verdi, almeno una tantum.
Vittorio Giuseppe Luigi Pozzo, nacque il 2 marzo 1886 a Torino, dove morì il 21 dicembre nel 1968, ed è un personaggio composito e quasi mitologico. Inattaccabile moralmente, “un tipo di alpino e salesiano, un piemontese risorgimentale ciecamente convinto delle virtù piemontesi. Uno di quelli per cui la parola sacra è “ël travai” (il lavoro). Era un fascista di regime. Uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti”, secondo Giorgio Bocca. “Era riuscito a gestire la nazionale, che pure il regime voleva usare come strumento di propaganda, tenendola abbastanza lontano dalle pressioni e dalle tresche dei gerarchi. Non fu antifascista, ma non fu nemmeno banditore troppo strumentalizzato da parte del potere. Forse quello fu l’unico modo per evitare che la sua squadra diventasse la Nazionale di Mussolini”, secondo Giampaolo Ormezzano. Fu un messia della modestia, che aveva acquisito un po’ dalla famiglia (povera), un po’ dalla Prima Guerra Mondiale, da tenente degli alpini.
Dopo aver giocato nel Grasshoppers svizzero e nel Torino Football Club, che aveva fondato e di cui fu direttore tecnico, dal 1911, lavorò alla Pirelli, ne diventò dirigente, poi fu il primo e praticamente l’unico commissario tecnico della nazionale italiana negli anni 30 e 40. Cultore del calcio inglese, accettò il primo incarico per l’esordio ufficiale dell’Italia di calcio all’Olimpiade di Stoccolma 1912, ponendo come unica condizione di non essere retribuito. Davvero figlio di altri tempi e di altre consuetudini, a paragone con le attuali realtà del calcio. Perse 3-2 con la Finlandia dopo i supplementari, si dimise, e tornò alla Pirelli. Dopo la Grande Guerra, tornò ct, ancora per l’Olimpiade, a Parigi, e quindi una terza volta, dal 1929, conquistò due titoli ai Mondiali nel 1934 e 1938, l’oro olimpico nel 1936 – l’unico della storia italiana – e due Coppe Internazionali, nel 1930 e 1935, che corrispondono agli attuali Europei.
Lui negò, ma è plausibile che davvero preparasse i giocatori alle partite ricordando la leggendaria battaglia del Piave e cantando tutti insieme le canzoni degli alpini. Fu il primo istituire i ritiri pre-partita, il primo a creare il senso del gruppo, il famoso “spogliatoio”, il primo a difendere strenuamente i suoi giocatori, come gli oriundi, ai Mondiali del 1934: “Se possono morire per l’Italia, possono anche giocare per l’Italia”. Fu anche il primo a sviluppare il centromediano metodista, il primo regista all’italiana, arretrato e centrale, appena davanti alla difesa, che creasse gioco e smistasse palloni su palloni, con uno schieramento molto protetto che poteva riassumersi nella doppia W, per come la squadra si schierava in campo. Fu quindi, il più vincente ct azzurro, grazie ai 30 risultati utili consecutivi, dal 24 novembre 1935 al 20 luglio 1939, l’unico ad aver vinto due Mondiali.
Si avvalse di campioni come Giuseppe Meazza, «Mumo» Orsi, Silvio Piola, Monzeglio, Guaita, Ferrari, Schiavio. Ma possedeva anche personalità e capacità, visto che cambiò quasi tutta la squadra fra un titolo mondiale e l’altro. Regalando al nostro calcio pagine epiche, come quella del 14 novembre 1934 allo stadio Highbury di Londra. Dove l’Italia campione del mondo sfidò per la prima volta i “maestri” inglesi, andò sotto addirittura 3-0 dopo appena 12 minuti ma, nella ripresa, ridotta in dieci, rimontò fino al 2-3, con una doppietta di Meazza, che colpì la traversa all’ultimo minuto. Entrando nella leggenda coi “Leoni di Highbury”. Al punto da ispirare anche Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale: «Gli italiani perdono le partite di calcio come fossero guerre e le guerre come fossero partite di calcio».
Poi, bollato come fascista e fuorimoda, nell’agosto del 1948 si dimise da ct, lasciando ad Enzo Bearzot la sua eredità morale, di servizio (6.927 giorni da ct) e di risultati-record: 97 partite con 65 vittorie, 17 pareggi e 15 sconfitte, 67.01% di successo.
*Articolo ripreso da agi.it*