Venerdì 16 marzo 2018 alle 18. All’Eirias Park di Colwyn Bay, in Galles. Una cittadella dello sport con campi, piscina, palestra e uno stadio dedicato a calcio e hockey, ma quel giorno riservato al rugby: Galles-Francia, Sei Nazioni femminile. In campo, ad arbitrare, un’italiana: Maria Beatrice Benvenuti. E non ci potrebbe essere un’ambasciatrice più luminosa e convincente per il nostro mondo ovale.
Beatrice ha 24 anni, è romana di Trastevere, e la sua non è una vocazione, piuttosto una tradizione: “Mio padre Alessandro dirigente di Cus Roma, Primavera e Capitolina, i miei fratelli Pietro e Leone giocatori nella Capitolina, decisivi i tre anni trascorsi a L’Aquila, dove il rugby è patria, è comunità, è dinastie, e dove tutto è cominciato, al campo Centi Colella, e mia sorella Maria Clotilde da tre anni arbitro anche lei. E poi mia mamma Paola, in un certo senso la più rugbista di tutta la famiglia. Il virus del rugby mi ha contagiato così, nelle trasferte al seguito dei miei fratelli, diventate gite di famiglia, picnic sugli spalti, con freddo pioggia neve, oppure con sole caldo afa, tra amore per il gioco, l’atmosfera, l’ambiente, e odio per il clima”. Finché un giorno: “A Sperlonga, al mare, sulla spiaggia, per caso abbiamo incontrato l’arbitro che, ormai a fine mandato, aveva dato un cartellino giallo – espulsione temporanea – a mio fratello, l’unico neo di una carriera rugbistica caratterizzata sempre dal fair play”.
In quel momento è scoccata una scintilla. “Non so se per ripicca o per orgoglio, gli ho chiesto se per una donna fosse possibile diventare arbitro, e quando lui mi ha risposto sì, ho voluto sapere come dove quando. E così, proprio il giorno in cui ho compiuto 16 anni, l’età minima richiesta, puntuale mi sono presentata per sostenere i test fisici e cominciare i corsi didattici”. Beatrice ricorda tutto il suo percorso, campo per campo, data per data: “Il 15 settembre 2009, un lunedì, al Comitato Lazio. C’erano solo uomini. Mi sentivo osservata, scrutata, squadrata. E pensare che quella è diventata la mia seconda casa. Due mesi dopo ero già in campo, sotto la pioggia, ad arbitrare il mio primo incontro, under 14, maschile”.
Capelli biondi e unghie rosse, un metro e 65 per 50 chili, maturità classica e poi laurea triennale in Scienze motorie, sei lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e norvegese) oltre all’italiano, Beatrice non ha mai giocato a rugby: “Ho fatto atletica, triathlon, pentathlon… Ma il rugby l’ho respirato e abitato, conosciuto e apprezzato. Per me il rugby è valori da custodire e tramandare, è regole da applicare e interpretare, è disciplina e rispetto, è prevenire prima di punire, è spiegare e dunque anche insegnare, forse è l’unico sport in cui un arbitro parla ai giocatori durante la partita per aiutarli a non commettere infrazioni. Arbitrare è una cosa fighissima, anche quando sembra che tutto giochi contro di te. E fin dall’inizio è stata una scommessa con me stessa, una sfida, un esame, una lotta. Ma che piacere quando una ragazzina mi chiede come si fa a diventare un arbitro. Io rispondo che si può, e che se ce l’ho fatta io, ce la può fare anche lei. E aggiungo che non bisogna chiudere i sogni nel cassetto: meglio provare a inseguirli e conquistarli, senza rimpianti”.
Una cosa fighissima, davvero: “Nel 2013 il debutto internazionale a sette alle Universiadi, nel 2014 ho arbitrato la finale del campionato di serie A femminile, la finale del Fira a sette Russia-Inghilterra a Mosca e il primo incontro internazionale Inghilterra-Sud Africa a Londra, nel 2016 sono stata l’unica rappresentante del rugby italiano all’Olimpiade di Rio de Janeiro”. Tanti ricordi felici, uno no: “E non mi piace raccontarlo. Invece mi piace ripensare a quante dimostrazioni di solidarietà e sostegno ho ricevuto, a tutti i livelli, dagli All Blacks – un mazzo di fiori ordinati al fioraio dietro casa mia con un messaggio, ‘Kia Kaha’, in maori, di non mollare mai – in giù”. Anche il ritorno in campo è indimenticabile: “Un incontro di under 14, maschile. I ragazzini stavano attenti a non sfiorarmi, anzi, giravano alla larga”.
E adesso, all’orizzonte, il Sei Nazioni, anche se non è la prima volta che un’italiana dirigerà un match del Sei Nazioni: l’onore dell’esordio è toccata a Federica Guerzoni, ferrarese, ex rugbista. “Cerco di essere autorevole, mai autoritaria. So che spesso rischio di sembrare una ragazzina davanti a gente che potrebbe essere, per età o aspetto, mio padre o mio fratello maggiore. Prima di cominciare la partita, quando mi rivolgo alle squadre, avverto che se c’è qualche problema, bisogna chiedere spiegazioni solo attraverso il capitano. E poi pretendo, come da regolamento, che mi si dia del lei, così come io do del lei ai giocatori. E’ una questione di rispetto. Rispetto reciproco: dare rispetto per poterlo ricevere. Il rispetto è la prima regola, anche se non scritta, del nostro pianeta”.
Ecco Beatrice. La sua prima partita da spettatrice: “Italia-All Blacks, il 14 novembre 2009, a San Siro, ero una degli 80018 per la storia, e per un 6-20 stratosferico, dopo una viaggio notturno da Roma, in nove su un Ford Transit”. La sua prima attenzione da arbitro: “Entrare nello spogliatoio della squadra che ospita la partita, al momento del riconoscimento dei giocatori. Lo spogliatoio è la loro casa, il loro tempio”. La sua ultima attenzione da arbitro: “Il terzo tempo. Partecipando e condividendo sempre, se posso, in mezzo ai giocatori. E quando non posso per ragioni di tempo e viaggio, vado, saluto e ringrazio”. Ecco Beatrice. La sua filosofia: “Si può sbagliare, l’errore è umano. Ma quando mi accorgo dell’errore, mi mangerei il fischietto”. Il suo segreto: “Non cercare il fallo, ma aspettare che venga a te”. Il suo spirito: “Far giocare”. I suoi comandamenti: “Un arbitro si giudica dalla conoscenza del gioco, dal linguaggio del corpo, dalla presenza sul campo, dal trovarsi nei punti di incontro”. Ecco Beatrice. La sua soddisfazione: “Quell’osservatore dell’International Board che, alla fine di una partita, mi fece i complimenti e mi confessò che, prima dell’inizio, non avrebbe mai scommesso su di me”.
Marco Pastonesi