Il tennis è la passione della mia vita: mi sono preso tante soddisfazioni, sono stato numero 1 del mondo juniores e, da professionista sono arrivato al numero 18 del mondo. Il tennis è stato un ottima scuola di vita, per questo i miei tre figli maschi, di 9, 7 e 5 anni, giocano quasi tutti i giorni, durante la settimana con mia moglie e il week-end con me: sono anche bravini, non ho aspettative sul loro futuro da professionisti, ma vorrei che acquisissero le belle qualità che il tennis mi ha regalato.
Statisticamente le probabilità che diventino professionisti sono molto basse, l’obiettivo è quindi quello di imparare tanto e magari di trovarsi, grazie al tennis, una borsa di studio in una buona università negli Stati Uniti. A questa statistica negativa si aggiunge una forte consapevolezza che, c’è poi comunque una parte importante della vita, fino ai 70 anni almeno, con la necessità di trovare un altro lavoro, al di fuori del tennis e dello sport. Perché, in realtà, la carriera del tennis è molto breve, diciamo dieci-quindici anni al massimo, e solo i primi 50 del mondo chiudono con una discreta condizione finanziaria, gli altri devono ricominciare praticamente da zero. E se non gli piace il tennis, se il tennis non è davvero la grande passione della loro vita?
Io ho sempre dato importanza alla scuola, ricordo che fra i giovani tennisti più promettenti, al centro tecnico federale di Riano Flaminio, ero l’unico che andava al liceo scientifico pubblico e non studiavo privatamente. Ma, sono sincero, se ho continuato, dopo la scuola dell’obbligo, devo ringraziare i miei genitori che hanno insistito che mi prendessi una laurea. Così, mi sono iscritto a Giurisprudenza, a Bologna, all’inizio soprattutto per rinviare il servizio militare, ma facendo pure un paio di esami l’anno, pur prendendomela comoda e finendo in dieci anni, alla fine mi sono laureato. E ne sono stato contento. Perché, a un certo punto, mi sono sentito stanco del tennis. Ricordo ancora la sensazione che provai, in campo, a Kitzbuehel, contro Goellner: mi faceva addirittura piacere quando lui mi faceva il punto, non avevo più l’intimo desiderio di vincere: era il momento di smettere. Era il 2003, ricordo benissimo che giocai l’ultimo torneo a San Marino e quattro giorni dopo mi iscrissi a un Masters di Business Administration alla International University di Monaco: avevo 30 anni, ma la mattina andavo a scuola come uno studente qualsiasi, col mio motorino e lo zainetto in spalla, e restavo in classe otto ore al giorno. Così, per un anno, è stata dura, all’inizio mi sentivo molto svantaggiato rispetto agli altri in materie come matematica, statistica, finanza ed economia, ero indietro, ma mi sono sempre piaciute le sfide e alla fine sono uscito con ottimi voti, oltre ad avere imparato tante cose che la Giurisprudenza non mi aveva dato.
La grande scuola del tennis mi ha aiutato allora e mi aiuta tuttora nel mondo del lavoro, e per questo, appunto voglio che i miei figli lo pratichino, perché aiuta a superare, da soli, le difficoltà di una partita ed i propri limiti. Non ci sono aiutini, scappatoie e scorciatoie: sei tu contro l’avversario. Questa è la grande lezione dello sport in generale, che diventa ancor più decisiva negli sport individuali come il tennis e che ti porti poi nella vita, dove le difficoltà non sono l’arbitro, il net e le righe, ma diverse. Impari che attraverso il sacrificio e la dedizione si possono ottenere risultati, anche se purtroppo nella vita le righe non sono sempre così chiare e dritte come nel campo da tennis.
Dopo il Master, ho aperto una attività come manager di tennisti, ma in pratica ho lasciato il tennis puramente detto per lavorare un paio d’anni a Milano in un’agenzia che curava i diritti d’immagine di 3-400 calciatori, e mi sono fatto le ossa sul campo, sempre in ambito sportivo. Quindi, ho accettato l’offerta di una grande società di scommesse online, ho fatto quindi un’ulteriore crescita, passando a un’azienda con 2000 dipendenti, quotata in Borsa, e sono ripartito anche lì dal basso, sono passato da un ruolo italiano di marketing a un ruolo globale, con la responsabilità di 1/3 del fatturato e un team di 200 persone. Il mio sogno però era quello di essere imprenditore e lavorare in “startups” nel settore della tecnologia e del digitale e così, dopo sei anni di esperienza “corporate”, sono passato a questa nuova avventura. Ora vivo a Londra e negli ultimi anni ho creato, investito e lavorato in varie startups in diversi settori come il “gaming”, i servizi finanziari e la musica. Ultimamente mi sono anche riavvicinato al tennis, ho iniziato aiutando la Federazione nella gestione dei rapporti internazionali con ATP e WTA per salvaguardare gli interessi del torneo di Roma e, recentemente, sono entrato nel Board di ATP Media, la società che commercializza i diritti media dei tornei ATP. Nei prossimi anni ci sarà un cambiamento radicale nella distribuzione di contenuti sportivi guidato delle nuove tecnologie, e sono felice di poter dare il mio contributo in questa trasformazione. Il torneo di Roma è diventata una realtà stupenda e credo che le opportunità di crescita nei prossimi anni arriveranno proprio dalla capacità di sfruttare i diritti media in un mondo che sta cambiando.
Adesso che ho tre figli che praticano il tennis penso spesso al problema di come non sia è facile per un ex atleta integrarsi nel mondo del lavoro, a mio parere, per due problematiche fondamentali comuni a quasi tutti i paesi, esclusi gli Stati Uniti, dove invece chi fa sport, in generale, è supportato dal sistema. A 15-16 anni, quando fai uno sport agonistico, devi cominciare per forza viaggiare molto e hai meno tempo per studiare, per cui la scuola dovrebbe supportare l’atleta di livello, e non creare delle difficoltà. Inoltre, una volta che hai finito l’attività, dopo aver vissuto grandi esperienze personali, dopo essere stato qualcuno, riconosciuto e coccolato, con la Mercedes che ti viene a prendere in aeroporto e l’albergo a cinque stelle, devi ricominciare completamente da zero in un mondo altrettanto competitivo come quello del lavoro. Ricordo benissimo i primi 3-4 anni, che sono stati molto duri, ho fatto tanta fatica: fare questo bagno di umiltà non è facile per nessuno e senza neanche una base accademica diventa molto difficile integrarsi. Forse, parlando di ex atleti, per alcuni sport come il calcio: è un mondo più vasto, ci sono più squadre e organismi, e quindi esistono anche più possibilità di continuare nello stesso ambito, di riciclarsi in un altro ruolo, ma nel tennis i posti di lavoro a disposizione sono molto meno. E quindi… e’ meglio che i miei figli pensino alla scuola in primis, e poi allo sport, che pure è fantastico e meraviglioso, ma non è tutta la vita. Dopo ce n’è un’altra più lunga e insidiosa.
Andrea Gaudenzi