“A ispirarmi è stato un regalo di mia zia: il libro ‘El despertar del líder’ (‘Il risveglio del leader’, di Kevin Cashman con Jack Forem, ndr), una vera e propria guida spirituale. Si è trattato di un risveglio anche per me: ho cominciato a pensare a come avrei potuto aiutare chi è meno fortunato”. Sono le prime parole del cestista Bruno Cerella, 32 anni, a proposito di Slums Dunk, il progetto che ha realizzato in Africa insieme al collega e amico Tommaso Marino. Fulcro dell’iniziativa è la loro passione più grande, diventata lavoro: il basket. “Niente unisce più dello sport, che è anche uno straordinario maestro di vita. Soprattutto quando è una disciplina di gruppo come la nostra: la pallacanestro insegna a condividere, collaborare e anteporre il bene comune a quello personale” spiega l’ala argentina (con passaporto italiano) dell’Umana Reyer Venezia.
Quando è nato Slums Dunk?
“Nel 2011, nella Capitale del Kenya, Nairobi. In principio ci limitavamo a coinvolgere nel gioco i ragazzi delle aree più disagiate, poi abbiamo capito che non bastavano un campo e una palla a spicchi: servivano dei professionisti che fornissero a questi giovani in difficoltà strumenti di crescita personale, oltre a quelli tecnici, in modo da diventare dei punti di riferimento”.
Cos’avete fatto, allora?
“Ci siamo dedicati alla formazione degli allenatori: ora sono dieci, i collaboratori sono una trentina nel complesso, con cui abbiamo creato la prima basketball academy. A Mathare, baraccopoli di circa 500 mila persone a est di Nairobi”.
Il traguardo più importante che avete raggiunto?
“Un netto miglioramento della qualità della vita: abbiamo tolto i ragazzini dalle strade e, grazie all’interazione con le Onlus locali, abbiamo dato origine a programmi sanitari e d’istruzione. Con le scuole organizziamo anche dei clinics che riguardano l’educazione sessuale e l’igiene mentale e tutti i nostri piccoli cestisti possono usufruire del servizio di analisi del sangue, come le mamme portatrici di Hiv”.
Quanti giovani sono coinvolti nel progetto?
“Ora che abbiamo aperto quattro academy, due in Kenya e due in Zambia, il numero è salito a 3.500. Sono arrivati anche ottimi risultati in campo, con la vittoria del torneo nazionale under 12, e due atleti si stanno godendo un’esperienza meravigliosa negli Stati Uniti: si sono guadagnati una borsa di studio per meriti sportivi. Altri trentatré, tra maschi e femmine, invece, ne hanno a disposizione una a Nairobi”.
Avete in programma nuove attività?
“Diversi Paesi ci hanno richiesto il format e presto sperimenteremo in Argentina. Poi sto preparando i documenti per portare in Italia un ragazzo davvero talentuoso, è stato Mvp del camp Basketball Without Borders, organizzato da Nba e Fiba. Di lui si occuperanno un club e una famiglia, che lo ospiterà qualche mese, e naturalmente frequenterà la scuola: ha 14 anni e deve prepararsi seriamente al futuro”.
Di cosa vai più orgoglioso?
“Di riuscire a trasmettere la passione per la pallacanestro e di dimostrare giorno dopo giorno che lo sport è un mezzo potentissimo per cambiare il mondo: dà messaggi positivi perché è l’espressione libera del corpo e dell’anima e mette in movimento il cervello insieme ai muscoli, allontana dalle cattive abitudini, educa allo spirito di sacrificio e all’umiltà del lavoro, accresce il rispetto reciproco e la resilienza. Eppure non è stato facile avviare Slums Dunk”.
Perché?
“Le famiglie erano scettiche nei confronti di una proposta tutta nuova. Adesso, invece, i genitori incoraggiano i figli ad allenarsi: hanno compreso che il baket stimola a dare il meglio di sé”.
Hai già programmato la prossima visita in Africa?
“Partirò a luglio e non vedo l’ora di trascorrere del tempo in compagnia dei piccoli. L’Africa è un luogo incredibile, magico: nonostante la situazione sia così complicata, negli occhi delle persone non trovi mai la tragedia, ma forza e dignità. Sapere di regalare un briciolo di gioia mi riempie il cuore”.
I ragazzi da te imparano attacco e difesa; tu da loro che lezione impari?
“Ogni volta che sto con loro mi rendo conto di quanto sia fortunato. L’Italia offre più opportunità di quelle che vediamo: qui possiamo realizzarci nella professione, abbiamo un sistema sanitario eccellente, ci muoviamo in sicurezza e ci spostiamo ovunque senza divieti. Insomma, non ci manca nulla: per questo ringrazio sempre”.
*Credito foto: Umana Reyer Venezia