I Los Angeles Lakers hanno ritirato la maglia di Kobe Bryant. Anzi, le maglie, la n.8 vestita nella prima parte della carriera e la n.24 che lo ha accompagnato negli ultimi titoli vinti fino al ritiro. E’ il primo giocatore al quale viene riservato questo onore (anche Jordan al rientro dal primo ritiro vestì il 45 al posto del 23, ma per poco): per quello che ne pensiamo, se lo merita. La festa, nel suo Staples Center, dal 1999 la sua casa in 17 delle sue 20 stagioni coi Lakers, è stata sontuosa anche se stridente è apparsa l’assenza di Phil Jackson che ha portato Bryant a vincere 5 titoli Nba, un rapporto spesso conflittuale ma comunque di grande stima, tra polemiche, punzecchiature e qualche pagina un po’ velenosa scritta dal coach più vincente della storia sul suo giocatore. Per chi abbia bisogno di una rinfrescatina su Bryant, che si è ritirato nel 2016 dopo tre stagioni in declino soprattutto a causa degli infortuni, ricordiamo che ha disputato 1566 partite tutte coi Lakers, vincendo 5 titoli Nba, due volte la classifica realizzatori come due volte è stato mvp delle finali disputando 15 All Star Game (4 volte miglior giocatore). Cosa spesso sottovalutata, per 12 stagioni, è stato inserito nel miglior quintetto difensivo della Nba il che, per uno che ha chiuso la carriera a 25 punti di media (terzo di tutti i tempi dietro a Jabbar e Malone, ma davanti a Jordan, per punti totali realizzati, oltre 33 mila) dà l’idea di enorme completezza. Secondo me, è il solo che può essere paragonato o addirittura competere con Michael Jordan, per una mentalità vincente, una leadership assoluta e una capacità tecnica che si è sviluppata nel corso della carriera. Poi, per l’impatto che ha avuto sul mondo dello sport e per l’eredità lasciata al basket e chi lo gioca, Jordan resta il più grande. In campo, però, Kobe, il Black Mamba, il serpente che ti stritola prima con la sua mente e poi con la sua forza, non è stato da meno.
Nel presentarlo al suo pubblico nella notte del ritiro delle maglie, Magic Johnson lo ha definito il più grande ad aver vestito la maglia dei Lakers, più di lui e di Kareem Jabbar. Kobe ha graziosamente risposto che sono state le maglie dei grandi campioni già appese al soffitto dello Staple Center ad averlo guidato e ispirato per tutta la carriera. Kobe sceglie il 24, il numero adottato dal 2006 come segno di rinascita dopo stagioni deludenti per i Lakers e segnate da una accusa di stupro, rispetto all’8 col quale aveva giocato fino a quel momento vincendo tre titoli: il 24 è il numero della maturità, delle grandi sfide giocate quando il fisico cominciava a far sentire il chilometraggio eccessivo, degli ultimi due titoli conquistati senza avere al fianco Shaquille O’Neal col quale era finita male, anche se Shaq e Kobe si sono abbracciati e da tempo hanno sotterrato i dissidi. “L’8 ha qualcosa che mai il 24 avrà” ha detto Bryant “ma se fossi forzato a scegliere direi 24”. Non ha dovuto farlo: nessun Laker vestirà mai più quei due numeri.
Kobe è anche il nostro Kobe. Me lo ricordo piccolissimo giocare nei nostri palazzetti mentre papà Joe segnava vagonate di punti a Rieti, Reggio Calabria e Reggio Emilia. Un tipo completamente diverso dal figlio, un grande talento solo offensivo che sembrava scendesse in campo più per divertire se stesso che per vincere. Bryant è cresciuto in Italia, parla ancora perfettamente la nostra lingua, ha assorbito le nostre passioni (il calcio), il modo di vestire e anche di vivere. Quando è tornato in America, queste esperienze italiane lo hanno fatto quasi fatto sentire un disadattato, così diverso nel modo di parlare, pensare, essere rispetto agli altri ragazzi. Ha risposto a modo suo, con un impeto e una crudeltà in campo straordinaria. E’ diventato una stelle delle high school a Philadelphia senza mai essere davvero amato dalla sua città: ero all’All Star Game quando Kobe vinse il titolo di mvp mentre buona parte dei suoi concittadini lo fischiava. E’ stato così per tutta la carriera.
Chi è Kobe davvero forse non lo sapremo mai. La persona elegante, gentile, che anche nei momenti più impegnati della sua carriera si scioglieva e metteva carinamente a disposizioni dei preziosi minuti della sua vita al solo sentire che parlavi italiano? E’ lo straordinario giocatore che ha maturato una tecnica spaventosa in un fisico non straordinariamente potente, che ha voluto vestire la maglia olimpica della Nazionale Usa divertendosi a seguire molte altre discipline dalla tribuna con la passione e la semplicità di uno spettatore qualunque? E’ il simpatico paraculo che cerca di farsi voler bene dicendo in Italia che è tifosissimo del Milan e a Barcellona di aver sempre tenuto al Barça? O è l’inarrestabile e crudele macchina da guerra cestistica, un egoista, che non ha mai guardato in faccia a nessuno, che ha lottato per anni nello spogliatoio con Shaq, col quale ha creato la coppia più immarcabile di sempre, per la supremazia nei Lakers, che ha subito un processo per stupro senza mai uscirne completamente scagionato perché finito con un accordo tra le parti? E’ l’uomo degli 81 punti in una sola partita o quello che ha portato i Lakers agli ultimi titoli? Difficile fare delle distinzioni o dei paragoni: Jordan ha avuto come compagni giocatori straordinari ma ben consci di essere i suoi scudieri, non sappiamo come avrebbe reagito se nella sua squadra ci fossero stati personaggi e atleti dominanti come O’Neal. Ma, in fondo, la cosa importa relativamente: Kobe Bryant resterà nella storia della pallacanestro come uno dei più forti di sempre e uno dei pochissimi in grado di scatenare un dibattito su chi sia stato più grande, lui o Jordan. Può bastare per definire una vita. L’amore che mostra in ogni occasione ancora per l’Italia che lo ha visto crescere ne fa un personaggio che comunque ci resterà nel cuore. Il fatto che esistano ancora dei miti che giocano per 20 anni, dalla prima all’ultima partita, nella stessa squadra mi emoziona in questo mondo usa e getta, dove le maglie indossate e quello che rappresentano sembra non abbiano più valore.
Luca Chiabotti
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