Era quello di allora uno sci più romantico, dove lo sci femminile, grazie a fuoriclasse come Deborah Compagnoni, stava combattendo la battaglia più dura: raggiungere la pari dignità con quello maschile. Era l’epoca di Tomba e mai sulle pagine dei giornali un risultato femminile avrebbe prevalso su uno maschile. Per riuscirci, ci volevano imprese vere, come quelle di Deborah.
Allora il mondo dello sci era un’unica grande famiglia. Nelle trasferte più impegnative, atleti, allenatori e giornalisti viaggiavano sugli stessi mezzi, vivevano negli stessi alberghi, cenavano allo stesso tavolo. C’era tanta amicizia e, così da vicino, le emozioni erano più vive. Meno di un mese prima, la Compagnoni aveva conquistato il titolo mondiale del gigante a Sierra Nevada, ma la concorrenza era agguerrita. Era l’epoca delle tedesche Ertl, Seizinger e Gerg, delle svizzere Nef e Roten, delle austriache Wachter, Dorfmeister e Goetschl. Insomma, era dura.
Narvik era l’ultima tappa prima delle finali di Coppa a Lillehammer, sede due anni prima dei Giochi. Nella baia di questa località sull’Atlantico si spegne la corrente del Golfo, in inverno il mare non gela, ma basta salire a nord di 5 km per vedere la baia successiva con un ghiaccio tale da permettere l’atterraggio degli aerei. Sul fondo della baia di Narvik ci sarebbe il cargo tedesco affondato nella seconda guerra mondiale dai partigiani norvegesi e carico di quell’acqua pesante che avrebbe dovuto permettere ai nazisti di realizzare la bomba atomica. Ventiduemila abitanti, una tranquillità assoluta, tre librerie incredibili se proporzionate al numero dei cittadini. Già, qui o si beve o si legge. E quando si beve non si scherza. La prova era la “cena ufficiale” a cui gli organizzatori tenevano moltissimo. Una cena su un treno, nella tratta sino a Bjornfjell, vicino al confine svedese, sulla tratta che per decenni ha portato il ferro dalle miniere di Kiruna al porto.
Bastava il pass per capire come girava il fumo: un mignon di acquavite da appendere al collo. La cena? Un piatto di prosciutto con due cetriolini, ma birra e acquavite a volontà. Al rientro, affari d’oro per i taxi per riportare in hotel chi non si reggeva più sulle gambe…
Due marzo 1996, il giorno della gara. In questo periodo dell’anno il sole non bacia ancora Narvik, accarezza solo per una ventina di minuti al giorno la cima delle colline circostanti. Così quel gigante venne disputato sotto la luce dei riflettori. Un bel muro iniziale, un piano in mezzo, un’altra picchiata verso il traguardo, neve fredda, un po’ gessosa. Prima manche con Compagnoni davanti a Panzanini con la Kostner nona.
Ma il capolavoro le azzurre lo costruirono nella seconda. Grande rimonta della Kostner, miglior tempo davanti alla Seizinger. Il tempo di Isolde resiste alla Koellerer, a Roten e Nef, la Dorfmeister si sdraia in pista. Ecco la Ertl, che cerca la rivincita dei Mondiali, ma non ce la fa. Solo la Panzanini fa meglio della Kostner. La sua treccia di capelli rossi sventola fuori dal casco, i suoi sci accarezzano la neve. Tocca alla Compagnoni, Debby parte alla grande, ma dopo sei porte si sdraia sul fianco sinistro. Però non deraglia. I suoi sci continuano a volare, taglia il traguardo con 1”39 su Sabina. E’ tripletta.
Nella cabina Rai, Ivana Vaccari impazzisce, a toni altissimi, fissa il momento storico. Nel parterre, le tre azzurre, con le altre compagne, Merlin, Perez, Magoni, Plank e Gallizio si inginocchiano sulla neve e improvvisano un trenino. Tutto è tricolore, Narvik nella sua storia non è mai stata così calda. Ma la festa dura poco. Bisogna fare i bagagli. In porto c’è la nave che la mattina successiva attraccherà a Bodo, nel viaggio verso Lillehammer. Curioso, quando la nave affronta le onde atlantiche, Picabo Street, discesista ancora più temeraria dell’attuale Goggia, è abbracciata ad una colonna del salone centrale, pallida per la paura del mare. Ma forse non era solo il mare, quelle tre azzurre avevano spaventato il mondo.
Pierangelo Molinaro