Ci risiamo. Il nome di Justin Gatlin ancora una volta associato al doping. Questa volte però lo sprinter statunitense è forse più vittima che protagonista. Anche se non del tutto incolpevole… Gatlin ha subito due squalifiche per utilizzo di sostanze vietate e molti ne avevano caldeggiato la sospensione a vita come in altri casi analoghi nell’atletica. L’hanno salvato uno stuolo di avvocati (che molti altri atleti non potrebbero permettersi) ed il dubbio che la prima volta, quando era ancora adolescente, avesse fatto uso di sostanze vietate inconsapevolmente, sostanze contenute in farmaci che utilizzava abitualmente per curare una forma particolare di disturbo dell’attenzione.
E sì… Ancora una volta non ha fatto attenzione. Negli stadi lo massacrano di fischi ogni volta che scende in pista, la scorsa estate ai Mondiali di Londra è stato costantemente segnato come il “cattivo” della recita. Justin è andato avanti, va avanti cercando di capitalizzare al massimo queste ultime stagioni di carriera. Già, deve rifarsi di quanto speso con gli avvocati…
Ma sorgono spontanee delle domande. La prima è perché, lui che dovrebbe rimanere sempre il più lontano possibile dalla parola doping, si è messo agli ordini di Dennis Mitchell, allenatore che come atleta si imbottiva di testosterone e altro e che quando è stato beccato ha raccontato la risibile scusa di aver fatto troppe volte all’amore con la moglie? Con Gatlin non centra direttamente il manager Wagner, austriaco, personaggio ambiguo del mondo dello sport, non solo per il doping, ma anche per le scommesse, che ha cercato di introdurre anche nel mondo dell’atletica.
La realtà è che il doping è una cultura, una cultura aberrante. Un atleta parte dal concetto che quello che è e che Mamma Natura gli ha donato non basti, così cerca aiutini e aiutoni per vincere. Un allenatore invece cerca con il doping di accorciare la strada, di affidare a sostanze vietate quello che probabilmente lui stesso non sa fare con i suoi atleti, portarli al salto di qualità decisivo. E tutti cercano con le vittorie il denaro. Chissà poi se riescono a dormire tranquilli e sereni e soprattutto se sono fieri di quanto hanno conquistato con l’inganno. E’ un tunnel cieco da cui è davvero difficile uscire.
E’ difficile perché un atleta che ha fatto uso di sistemi e pratiche vietate quando cerca di smettere ha doppie difficoltà rispetto agli avversari puliti e onesti. Ha meno forza, meno fiducia in se stesso, ma soprattutto vede allungarsi i tempi di recupero e questo fatto deprime. Ricorda le sensazioni del “periodo d’oro”, che possono essere decisamente diverse da quelle degli atleti per bene, un sentimento che avvelena. C’è chi dice che anche quando si cessa di doparsi gli affetti delle pratiche proibite rimangono. Di sicuro rimangono nella testa e nel cuore. Non è facile quando ci si è sentiti una Ferrari tornare a pedalare in bicicletta. Ecco perché, anche se giuridicamente difficile, sarebbe giusto escludere definitivamente chi risulta positivo ai controlli. Allora Justin, perché hai cercato la collaborazione di Mitchell?
Pierangelo Molinaro