“Non so proprio che diavolo mi è successo nel tie-break”. Questa è la frase di tutti i tennisti. Figurati se è il tie-break della finale, per di più di una finale importante, dopo una finale equilibratissima, contro un avversario forte ed indomito, uno col quale hai perso in sei tornei importanti, e ti ha sempre reso la vita difficile. Ma se questa frase la dice Roger Federer, appena incoronato il più forte addirittura da Rod Laver, lo stesso Roger Express che, a 36 anni suonati, è tornato al numero 1 del mondo dopo essersi aggiudicato altri tre titoli dello Slam?
Da una parte, i suoi tifosi e quelli dei grandi rivali, Nadal e Djokovic, lo accusano ugualmente, vuoi di masochismo, di ricerca di una complicazione in più, invece di andare al sodo, vuoi di fragilità emotiva davanti ai più forti, screditandone il mito. Dall’altra, gli spettatori neutrali, gli esteti, la maggioranza, più o meno esperta di tennis, ma ugualmente affascinata dal personaggio, applaude convinta ed affascinata anche quest’ultima espressione del campione-uomo. Capace cioè di estreme debolezze, di crolli psico-fisico-tecnici e di pianti sommessi, che non stridono, non si contrappongono agli eccezionali picchi di rendimento tennistico. Perché il campione-uomo è bello così, forte e fragile insieme, e quindi unico, ben diverso dal super-uomo, Rafa e Nole, implacabili ed inattaccabili demolitori di avversari dei tempi d’oro, che non mostravano mai debolezze. Ma sono finiti tutt’e due in infermeria, pieni di cerotti e di lamenti.
Di certo, però, le 19 sconfitte che Federer ha accusato dopo aver mancato match point rappresentano un record ugualmente eclatante dei 20 Slam e della pletora di primati del Magnifico. Che insiste, perplesso: “Ci sono state molte occasioni da entrambe le parti. Ho servito per il match, ho avuto qualche match point, due, tre, non sono nemmeno sicuro di quanti fossero. Non conta nemmeno se siano stati venti o uno solo. E’ deludente, ma penso comunque che sia stata una buona partita”. Aprendo subito un’altra pagina della sua grande umanità: “Che bella storia, quella di Del Potro, questo è il motivo per cui sono comunque molto contento, oggi”. Giusto un attimo, prima di tornare alla frustrazione, compagna di qualsiasi atleta, di qualsiasi livello: “Devo superarla. Non c’è modo di aggirarla. Mi sento frustrato per aver lasciato passare un’opportunità come questa. Servendo sul 40-15, in genere vinco il game, non so qual è la percentuale, penso sia il 90%”.
Le scorie di quell’errore sono troppo pesanti da digerire dopo la partita, figurati durante, e vale anche per Roger Federer: “Ho cominciato male il tie-break. Subito una brutta risposta, e invece Juan Martin ha subito risposto bene al mio servizio, ho fatto qualche scelta sbagliata. E ho perso un po’ il servizio. E lui ha colpito pulito e io no. E così il tie-break è volato via molto in fretta. Vorrei rigiocarlo ancora… Ma va bene così, a volte succede”.
Certo, davanti a frasi così, si stenta a riconoscere il Federer che si riprende clamorosamente e imperiosamente il suo regno come Ulisse, di ritorno a Itaca. Anche perché, con tutto il rispetto per Del Potro, anche la partita di domenica a Indian Wells l’aveva praticamente vinta. Superando le difficoltà già emerse nella semifinale, con gli applausi convinti di baby Borna Coric, alla prima semifinale Masters 1000 davanti al re che si garantiva la finale Atp numero 147: “Molti altri, sul 5-7 2-4, avrebbero mollato… Ero davvero vicino alla vittoria! Ma Roger è rimasto nel match, molto, molto, a lungo, mentre io non sono più riuscito a resistere. Ecco perché è un campione, senza autentiche debolezze nel gioco. E, anche se all’inizio sbagliava e non giocava bene, ha continuato a spingermi, come se mi dicesse: “Il match devi vincerlo tu, perché io non te lo regalerò”.
Certo, le differenze fra Del Potro e Coric sono tante e varie, con l’argentino che ha un peso di palla e una caratura fisica e di personalità troppe superiori al croato. Senza contare l’esperienza sul Tour e quelle contro Federer. Ma in fondo Indian Wells ha confermato doti e difetti del Fenomeno, spesso incapace di fare la scelta giusta, in campo, e talmente abituato ormai all’aiutino dell’amico-coach Ivan Ljubicic, da alzare spesso – stranamente – lo sguardo verso la sua tribuna a cercare conforto. Senza trovarlo. Ljubo non c’era, si riaggregherà al clan a Miami, coi suoi consigli tecno-tattici e la sua serenità. Le armi vere del nuovo Federer.
di Vincenzo Martucci
(Tratto dal sito www.federtennis.it)