E’ morto stamattina. In bicicletta. Stava per cominciare l’allenamento quotidiano. E’ successo alle 8, nella sua Filottrano (Ancona), sulla provinciale 362, in via dell’Industria, a un incrocio. Travolto da un furgone che, pare, non ha rispettato la precedenza del corridore.
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Qualche colpo lo perdeva, la battuta mai. Ce l’aveva sempre pronta, in rampa di lancio, nel lampo degli occhi, sulla punta della lingua. Quando sfiorava la vittoria: “E’ un po’ come sedurre Monica Bellucci e poi, sul più bello, tornarsene a casa”. Quando il tempo minacciava pioggia, freddo e neve: “Sono attrezzato. Con il cognome che ho”. Quando gli chiedevano l’età: “Io sono giovane dentro”. Lo rimarrà: a 37 anni, Michele Scarponi non invecchierà più.
Lo chiamavamo – l’uso del passato è un castigo e sembra una follia – l’Aquila di Filottrano. Lui citava Wikipedia: “Dispiega volo potente, spesso veleggiato, maestoso; piomba dall’alto sulle prede”, “Simbolo celeste e solare, l’aquila indica pure acutezza mentale e d’ingegno”, “Anche l’antico proverbio latino ‘Aquila non capit muscas’ (l’aquila non cattura mosche), che sta a indicare come i grandi non si curino delle piccole cose, attribuisce automaticamente all’aquila il simbolo di grandezza”. La prima aquila a pedali è stato Federico Martin, scalatore di Toledo, detto Bahamontes, perché appiattiva, abbassava, spianava le salite. Scalatore, ma meno talentuoso di Bahamontes, in 16 anni da professionista Michele ne ha fatte di belle (una trentina di vittorie, fra cui il Giro d’Italia del 2011 dopo la squalifica di Alberto Contador, l’ultima lunedì scorso, la prima tappa del Tour of the Alpes, l’ex Giro del Trentino), e anche di meno belle (18 mesi di squalifica per il coinvolgimento nell’Operacion Puerto: doping).
Lo amavamo. Lo si doveva amare. Era impossibile non amarlo. La faccia elastica e plastica, il naso promettente ed emergente, la smorfia teatrale e cabarettistica, la battuta fulminea e fulminante, la simpatia contagiosa e scatenante, la magrezza originale, anche perché non si è mai vista un’aquila pasciuta o sovrappeso. E, durante Giro, Tour e Vuelta, era un telaio scheletrico, un motore collaudato, il gas aperto.
Lo incontrai, la prima volta, all’aeroporto di Groeningen, in Olanda, per la partenza del Giro d’Italia 2002. Neoprofessionista. Lo pedalò nell’Acqua & Sapone, una banda zebrata al servizio di Mario Cipollini: Scarponi era “il Giovane” e il suo compagno di camera, Roberto Conti, era “il Vecchio”, e per la magrezza si distinguevano dagli altri, che erano grandi e grossi, passisti e velocisti, scaltri e potenti, marcantoni da rettilinei, da volate, da sessanta all’ora. Per Scarponi fu come fare battesimo, scuole dell’obbligo e università, e trovare un posto a Wall Street, tutto in un paio di giorni, e poi vivere fra mille avventure. Il giorno di riposo domandai a Cipollini e ai suoi vassalli che cosa avessero fatto: mi risposero una cinquantina di chilometri per sciogliere le gambe. Poi lo domandai a Scarponi: mi rispose che erano andati al primo bar, si erano fermati a prendere un cappuccino e a fare quattro chiacchiere, e poi erano tornati indietro. Quel giorno tutti e due imparammo una lezione: la mia, non credere mai ciecamente ai corridori, la sua, chiedere sempre prima al capitano. Sulle pagine della “Gazzetta dello Sport”, cartacee e eteree, tenevamo un diario: il diario del gregario. Esilarante, esplosivo, surreale.
Sopravvissuto a vittorie e sconfitte, a trionfi e tempeste, Scarponi si è trasformato da giovane a vecchio, da capitano a gregario, un bel gregario da salita, un maggiordomo – come diceva lui – per Vincenzo Nibali e Fabio Aru. Gregario-maggiordomo in stanza, dove faceva ritrovare l’allegria al suo capitano, e gregario-maggiordomo in salita, dove faceva perdere l’allegria ai suoi rivali.
“Il ciclismo è uno sport incredibile – filosofeggiava Scarponi -. Previsioni impossibili, pronostici azzardati, prospettive variabili. Non si riesce a programmare neanche un percorso che il meteo lo cancella. Figurarsi un podio. Bisogna sempre lottare, combattere, stringere i denti anche se dovessero consumarsi. Io sono di quei duri che cominciano a giocare quando il gioco si fa duro e quando torna a essere un ciclismo antico. Perché io sono un corridore all’antica”.
Era un’aquila elettrica (ma qui non si allude ai motorini), divertente, irriverente, vulcanica, sdrammatizzante, esorcista, immediata, diretta, rapace, simpaticissima. Un’adorabile aquila.
Marco Pastonesi