Ciao Nicky, “Nice Guy”. Un addio assurdo, apparentemente senza motivo, anche se un motivo c’è sempre, al di là di chi ha ragione o ha torto. Ma non ha nessuna importanza. Se n’è andato una grande ragazzo, con un sorriso più grande di lui. Lontano dai pericoli di una moto lanciata al massimo dei giri, come uno qualsiasi di noi, che alla domenica si dedica al suo passatempo preferito. Per lui la bicicletta, piacere più che allenamento. (Clicca qui per vedere la bellissima gallery fotografica in suo ricordo)
Uno come noi, ma un speciale, davvero un ragazzo “nice”. Un pesciolino con la faccia simpatica, in un mondo di squali. Incapace di arrabbiarsi. Quasi ci riuscì a farlo uscire di gangheri il suo compagno di squadra Dani Pedrosa, quando era nella sua fase umorale negativa, che in Portogallo 2006, alla penultima gara, lo falciò scriteriatamente, pretendendo anche di avere ragione. Nicky era in testa al Mondiale MotoGP, il sogno di una vita, con 12 punti di vantaggio su Valentino Rossi e 3° in gara. Si ritrovò inseguitore con 8 punti da recuperare. Praticamente senza speranze. Ma lui ci credeva: sulla tuta, in fondo alla schiena, si fece cucire quattro assi sul tappeto verde. Puntava tutto su di sé, solo lui. Lui solo contro tutti e incredibilmente vinse. E tutti furono contenti. “Quasi” perfino lo sconfitto Valentino, che a Nicky poteva perdonare questa ferita.
Era stato così fin dall’inizio quando, mito in America, dove aveva stravinto tutto, nella Superbike, sbarcò in Europa. Era fine ottobre 2002 a Valencia quando arrivò un po’ spaesato nel paddock. L’anno dopo avrebbe corso con la Honda ufficiale, compagno di Valentino. Gentile con tutti, si sorprendeva del perché tutti gli chiedessero di quello “strano” numero di gara, il 69, se lo avrebbe confermato. In America non esisteva quell’allusione sessuale che c’è da noi. E lui gentile ripeteva: “Certo che lo tengo”.
Del resto, era il numero di papà Earl, un personaggio quasi più del figlio, che parla un americano strettissimo del Kentucky “che qualche volta non capisco nemmeno io”, scherzava Nicky. Ex pilota, concessionario di auto di seconda mano che aveva chiamato “Second Chance”, ha messo in sella i tre figli e anche una figlia fin da piccolissimi. Nicky era il più bravo, ma con mamma Rose, anche lei ex pilota, si dividevano le domeniche per seguirli tutti, visto che Tommy e Roger Lee correvano in America. C’era Earl sulla sella, senza casco, con la bandiera americana in mano, sulla sella dietro Nicky nel giro d’onore dopo il titolo. Ed è stato emozionante quando a Indianapolis, nel 2014, dopo che il patriarca aveva sconfitto una brutta malattia, la tribù si riunì per presentare The First Family of Racing, il libro con la storia della famiglia Hayden.
Era un vero “figo” Nicky. Senza storia il più bello del paddock. Dieci centimetri in più e avrebbe potuto sbancare anche come modello. Faceva strage nei box. Ma solo nelle classifiche dei più belli del reame. Perché la sua formazione, quella della sua famiglia, ultra-cattolica, non prevedeva avventure e cuori infranti. Con l’occhio chiaro, il capello lungo, spesso un filo scomposto di barba da bello e possibile avrebbe potuto avere qualunque delle ragazze che a vario titolo frequentano le corse. Invece non lo si è mai visto con nessuna, fino all’arrivo, qualche anno fa, di Jaqueline Marine, fidanzata e promessa sposa che era con lui in Romagna, tra una gara e l’altra della Superbike, dove aveva trasmigrato l’anno scorso.
Nice Guy non era un talento travolgente, ma un ottimo pilota e un lavoratore instancabile. Girava e girava, cercando sempre di migliorare un po’ di più, per arrivare in quell’Olimpo che aveva toccato troppo fuggevolmente nel 2006. Nei test, quelle noiose giornate passate in piste deserte a sviluppare la moto, era infaticabile. Se sentivi una moto girare al mattino prestissimo o subito prima del semaforo rosso potevi essere certo che fosse quella col numero 69. Era un campione, ben pagato, famoso, apprezzato, ma lavorava come il più umile dei collaudatori. Senza stancarsi mai. Lo ha tradito una leggerissima bicicletta, forse una disattenzione, forse solo il destino, che l’ha sgambettato in una stradina di campagna, migliaia di chilometri lontano dalla sua Owensboro. Ci resta il suo sorriso. Non è molto, è tantissimo.
Filippo Falsaperla