Mourinho è solo l’ultimo di una lunga serie. A fronte di un guadagno annuale diciamo congruo – 28 milioni di euro di cui 16 di ingaggio da chi lo stipendia (e gli paga pure le tasse) e 12 da contratti personali con gli sponsor – il fisco spagnolo si è svegliato e gli chiede conto di 3 milioni di euro che si è scordato di segnalare, secondo loro, come provento della sua bella faccia (tosta). Prima di lui, nel dorato mondo del calcio, sono transitati sullo stesso palcoscenico Messi e Ronaldo, ciascuno con un padre dimentico di raccontare la verità al fisco. In parte, ovviamente, puoi essere completo evasore fiscale sono a inizio carriera, sino a quando i riflettori non ti abbandonano più.
I papà vengono comodi per coprire le magagne, anche quello di Alberto Tomba – tutto il mondo dello sport è paese – si assunse responsabilità non sue, coprì la figlia che fungeva da manager ad Alberto. Patteggiò la metà dei 50 miliardi, in lire, che il fisco italiano reclamava. Uno dei furbastri , Valentino Rossi, cominciò col dire che le tasse le pagava altrove. In Inghilterra. Dal Regno Unito, senza bisogno di rogatorie internazionali, nel giro di una settimana chiarirono che in Inghilterra Rossi non pagava una lira (sterlina). Uno che in bici andava fortissimo, Re Leone Cipollini, era convinto di poter risiedere a Montecarlo e di nulla dovere al fisco italiano che invece accertò il suo permanere pressoché fisso in Toscana. Come Valentino che a Tavullia lo vedevano spesso (e volentieri) e ha dovuto alla fine patteggiare.
La chiamano, con un simpatico eufemismo, “tagliola fiscale”. Scatta a sorpresa, solitamente con un paio d’anni di ritardo sulle attese, ma i numerosi consulenti fiscali di cui si avvale uno sportivo di successo o un imprenditore in evidenza, diciamo un soggetto rampante, ti ricordano che prima o poi “ti pizzicano”. Il principio, del resto è noto: da sempre in tutto il mondo civile (sempre che esista ancora una porzione del pianeta che risponda a questa definizione) la tassazione è fissata in base alla capacità contributiva. Tanto guadagni e di conseguenza, ti piaccia o meno, paghi.
Che poi questo dovuto sia “scandaloso” – è la tesi di molti riccastri, che civili non saranno mai, convinti che versare al fisco il 50 per cento dei propri redditi sia una “mostruosità”, in presenza di cifre “importanti” – è una storia che non convince. Parliamoci chiaro: visti gli stipendi di gran parte di noi, decisamente esigui, perché lagnarsi quando guadagnando 28 milioni di euro ne pretendono una buona fetta? Non bastano per le piccole spese i soldini che residuano? Il problema, al solito, è l’avidità: chi ne ha ne vorrebbe sempre di più, e gli sportivi – molti di loro in partenza svantaggiati, figli di una miseria senza alcuna nobiltà – non sopportano l’idea che il fisco, moderno Robin Hood, prelevi dalle loro tasche cifre importanti.
Notiziona: i più grandi studi di fiscalisti in Italia, quelli che hanno magari 50 esperti in grado di farti pagare il minimo in base alle leggi vigenti, capaci di trovare le esenzioni più fantasmagoriche, raccontano con una punta di rassegnazione che lo sport più praticato dai ricchi e dai riccastri è l’elusione, se non l’evasione fiscale. Eppure li avvisano che il fisco, a qualsiasi latitudine, prima o poi ti rintraccia. Risposta a questo punto scontata: “Che succeda, dopodiché patteggiamo”.
La morale, non piacevole, è che chi evade o elude, sia esso uno sportivo di classe o un imprenditore, in buona o in cattiva fede, gode dell’ammirazione dei più. La gente ha forse saputo che nell’Olimpo gli dei erano esenti da qualsiasi tassazione?
Sergio Meda