E’ una mattanza. Silenziosa. Una violenza subdola che ha per scenario decine di campi di calcio del panorama dilettantistico per un fenomeno che ha tante vittime. Nomi: Riccardo, Paolo, Francesco, Giovanni. Solo nomi che, nella culla della grande madre della prevaricazione, sono malmenati, insultati, picchiati a sangue. Gli arbitri, appunto. Ragazzi trascinati dalla passione sul terreno di gioco, con la loro giacchetta che è piena di orgoglio, ma che gli altri, calciatori e dirigenti, interpretano come una maledizione, un’ingiustizia, un potere da maltrattare.
Perché se la tradizione voleva che l’arbitro, negli epiteti dei tifosi, dovesse essere per forza cornuto, ora è diventato un nemico. Sugli spalti l’insulto è di casa, ma per fortuna evapora lì. In campo, invece, si “mena”. Calciatori e dirigenti sono i primi ribelli alla consegna dello sport: partecipare, non solo vincere. Qui c’è da vincere, invece, una battaglia contro chi si sente bersagliato da un cartellino giallo o da un rigore fischiato. Perché la giustizia è sempre per gli altri, non per noi stessi.
La statistica è impietosa e assurda: nella stagione 2013-2014 sono stati 375 gli aggrediti, 600 nel 2014-.2015, 681 nel 2015-2016, 473 nel 2016-2017, 451 nel 2017-2018. Un po’ meno in questa stagione, ma siamo solo all’inizio, c’è sempre tempo per la follia. Se nel Friuli Venezia Giulia non si è verificato alcun episodio, in Calabria sono state 95 le aggressioni, 47 in Campania, 41 nel Lazio. La rabbia degli arbitri è confluita in un incontro con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ci vogliono interventi seri e non propaganda.
Qualcuno ha scritto parole sagge, dopo l’aggressione di Riccardo, arbitro di Ciampino che ha rischiato di morire. Le ha dette un arbitro che non arbitra più e che chiesto di restare nell’anonimato, quasi che ciò che dice possa diventare oggetto di violenza nei suoi confronti: “Non si deve salvaguardare un arbitro solo per la paura delle multe o delle squalifiche, ma perché è un atto dovuto di sportività e di rispetto. Le persone si dimenticano che lì in mezzo al campo ci potrebbero essere i propri figli, un fratello o una sorella. L’arbitro diventa così l’oggetto di una rabbia repressa e ingiustificabile”.
La violenza verbale, complice il cieco esercizio attraverso i social, in questi anni è stata sdoganata, trasformata in un atto comune, con la libera opportunità di dire ciò che si pensa di pancia, non di testa, senza vincoli, freni, responsabilità. E’ inevitabile che l’atteggiamento dei “moralizzatori de noantri” possa trasformarsi in una violenza anche fisica, perché il proprio io diventa una verità intangibile e senza mediazioni e confronti.
Nel caso del calcio dilettantistico i calciatori e tanti dirigenti di grande respiro intellettuale, pensano che gli arbitri, ragazzi qualsiasi, figli nostri, possano trasformarsi in dispettosi dispensatori di regole che piacciono se sono a loro favore e non piacciono se sono contro. E se non piacciono si accende il diluvio della violenza, prima verbale, poi anche fisica. L’arbitro è in balìa di un’assurda follia, che brucia nella mente di persone che, prima di tutto, sono ignoranti protagonisti della vita civile. Perché il passo, oltre il campo di calcio, ha una frontiera sottile. Oggi siamo tutti giudici. Consapevoli o no, ci arroghiamo il diritto di esprimere concetti senza sapere se questi, oltre alla violenza verbale, possano trasformarsi in qualcosa d’altro. Combattere l’ordalia è un atto di rispetto, prima che verso gli arbitri, verso l’uomo. Pensando, però, che da certi pulpiti agghindati di falsa sincerità nascono inconsapevolmente le aggressioni che ci trasformano in un paese da terzo mondo.
Sergio Gavardi