Dopo la Milano-Sanremo, le strade del ciclismo si moltiplicano: al sole del Giro della Catalogna, al vento delle classiche del nord, all’avventura della Settimana internazionale Coppi e Bartali. Il nome di questa corsa è perfino esagerato: nella durata (non si tratta di una settimana, semmai è più un weekend lungo che una settimana corta: si gareggia da oggi a domenica, due semitappe e tre tappe, totale cinque) e nei luoghi (non si corre nel Piemonte di Fausto né nella Toscana di Gino, ma in Emilia e in Romagna). Ma tant’è: il ciclismo è, a differenza di tutti gli altri sport, un continuo esercizio, confronto, omaggio alla memoria. E Coppi e Bartali pedalano ancora in gruppo, anzi, davanti: nei titoli della gloria, non in quelli di coda. Non sono operazioni di nostalgia, non soltanto. Sono riferimenti storici, culturali, letterari. E il ciclismo li respira, se ne nutre, li abita. Per sempre.
Bartali era Garibaldi. Ha attraversato tutto il Novecento: nato con i venti della Prima guerra mondiale, 1914, morto un Cinque maggio, quello del Duemila. Nella sua vita non ha fatto che pedalare: in bici, ma anche in macchina e a piedi. Ha continuato a pedalare anche quando Coppi stava in Africa da prigioniero di guerra: e intanto ne approfittava per salvare centinaia di ebrei trasportando documenti di identità nuovi e falsi, nascosti nel tubo piantone o nel manubrio della bici, per evitare persecuzioni e deportazioni. Ha fatto il corridore, il direttore sportivo, il talent scout e il testimonial quando questi due ruoli non sapevano ancora di marketing e merchandising, ha fatto perfino il conduttore di “Striscia la notizia”. Era un gigante, in salita (nessuno, mai, forte come lui), ma anche a spasso. Era un italiano – parole e musica di Paolo Conte – in gita.
Coppi era Carlo Pisacane, o James Dean, o Jim Morrison. Il destino ha voluto rapirlo e immortalarlo eternamente giovane, un guerriero ma a pedali, un attore ma in bici, un artista ma in sella. Ha illuminato, folgorato, premiato tutti gli italiani dal tramonto degli anni Trenta all’alba dei Sessanta, dalla miseria esistenziale al boom economico, dalle cascine contadine ai condomini cittadini, dalle biciclette pesanti come cancelli alle biciclette leggere come farfalle. Dipinto come socialista, frequentava i preti, e trattato come scandaloso, si comportava da monastico. Sublimava le contraddizioni. Parlava attraverso i silenzi.
Il ciclismo non rinuncia a nessuno dei suoi interpreti. La maggiore parte delle corse sono memorial per allungare la vita, o restituirla, a scalatori e velocisti, a capitani e gregari, organizzatori e perfino giornalisti. E poi libri, premi, serate, monumenti, targhe, cene. Si intitolano piazze e fontane, vie e biblioteche, velodromi e ciclabili. Luigi Malabrocca, che con un’intuizione geniale (e un bisogno urgente) aveva ribaltato il modo di correre per conquistare la maglia nera, quella riservata all’ultimo della classifica generale, vive ancora grazie a uno spettacolo teatrale itinerante, una sorta di nuova corsa a tappe. E così Alfonsina Strada, l’unica donna che abbia mai partecipato al Giro d’Italia degli uomini (accadde nel 1924, e fu mantenuta in corsa anche quando giunse al traguardo fuori tempo massimo).
Coppi e Bartali, ma anche Gimondi e Merckx, o i meno conosciuti (ma non meno valorosi, o esaltanti, o letterari) Venturelli e Pellicciari, Massignan e Bruseghin, e adesso Marangoni e Bono, che non è il cantante degli U2, ma un gregario di Iseo, abbonato alle fughe che si concludono puntualmente prima dell’arrivo. Il gruppo è infinitamente più numeroso di quei corridori che si vedono, sulla strada, un attimo, e poi più.
Marco Pastonesi