Ho perso il controllo all’ingresso della Piratella, curva veloce a destra dopo la Tosa. Terza, quarta, quinta marcia, poi la ruota anteriore si è sollevata: quando ha toccato di nuovo terra, la moto è schizzata dritta a 230 km orari. Lo schianto contro il muro di cemento, il dolore alla schiena e la sensazione di non potermi muovere restano indelebili nella mente”. Joan Lascorz non si sottrae al ricordo dell’incidente che gli ha fratturato la sesta vertebra e gli ha stravolto la vita: il 2 aprile saranno trascorsi 7 anni da quell’ultima volta in sella.
All’epoca il pilota catalano gareggiava nella WorldSBK per il team Kawasaki Racing e quel lunedì era impegnato nei test post gara all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola. Oggi, a 34 anni, “Jumbo” è un uomo a cui la paraplegia non tolto né il coraggio né il sorriso. Né la voglia di correre: “Ho un sogno che mi piacerebbe realizzare nel 2020. Essere il primo tetraplegico a partecipare alla Dakar. Anzi, vincere almeno una tappa” dice.
A che punto è il progetto?
“A dire la verità, deve ancora partire: sto spargendo la voce per raccogliere fondi. Non dico che iscrivermi sia un’impresa impossibile, ma quasi: serve circa un milione di euro per avere a disposizione una macchina. Però non perdo la speranza, sono un tipo che non si abbatte”.
Che genere di auto ti serve?
“Una adattata alle mie esigenze, come quelle che guido da qualche anno, ormai. Ho perso la mobilità dai piedi al tronco: con la mano sinistra tengo il volante, con la destra accelero e freno”.
E vai fortissimo: nel 2016 hai conquistato il titolo spagnolo nella categoria Buggy SSV.
“È stata una soddisfazione immensa. Pari alla partecipazione al Marzouga Rally, nel 2017 in Marocco, nessun tetraplegico aveva mai gareggiato a un rally ufficiale insieme ai normodotati e, prima ancora, alla patente sportiva. Ci sono voluti 3 anni, ma ne è valsa la pena, perché niente mi fa stare meglio della competizione: quando la portiera si chiude, mi sento come tutti gli altri e l’adrenalina è energia pura”.
Oltre che sulle quattro ruote, hai dimostrato di avere talento come commentatore televisivo della WorldSBK.
“All’inizio ero imbarazzato, ma ho le moto nel Dna e mi è bastato poco per sciogliermi. Mi sono divertito molto, al punto che probabilmente ripeterò l’esperienza; se tutto va come dovrebbe, comincerò al prossimo round, ad Aragón.
In più, si sta facendo largo un’altra opportunità interessante: realizzare un documentario Netflix sulla Dakar. Saprò tra pochi giorni, alla riunione di produzione”.
Motori a parte, come trascorri le tue giornate?
“Abito in montagna con la mia fidanzata e tanti amici speciali che mi tengono impegnato e mi riempiono di affetto e gioia. Tra loro, ci sono una lince, un cerbiatto e un ghepardo: è una specie a rischio e ho intenzione di avviare un piano di conservazione.
Vestirmi, allenarmi, accudire gli animali: in carrozzina ogni gesto richiede tempo e io non ho fretta. Ho bisogno di tranquillità, serenità e, soprattutto, semplicità: di qualsiasi cosa si tratti, devo trovare il modo meno faticoso per farla. Lo stress e la frenesia sono un lontano ricordo, il tempo oggi ha un altro valore, non lo rincorro più: ecco la seconda lezione che ho imparato dall’incidente”.
La prima qual è?
“La differenza tra due parole. Fino a quel giro in pista a Imola, pensavo di avere problemi, invece erano solo preoccupazioni. L’esatto contrario di adesso, ma affronto le difficoltà quotidiane come sfide e penso positivo”.
*Credito foto : Tomas Espuche