In fondo il 9”99 con cui Filippo Tortu ha corso i 100 metri a Madrid non è una sorpresa. Pareva nell’ordine delle cose dopo il 10”04 che aveva mostrato contro il gotha del mondo e soprattutto sotto gli occhi del mondo, nel Golden Gala all’Olimpico di Roma. Nella capitale il ventenne brianzolo aveva mostrato ancora una volta la bellezza estetica della sua corsa e soprattutto nervi saldi davanti ad un pubblico a cui non è certo abituato.
Le sue doti naturali sono eccezionali: una reattività nervosa di prim’ordine, qualità elastiche ed esplosive muscolari straordinarie, una mobilità dell’anca che in perfetta coordinazione con ginocchia e caviglie gli permette di alzare poco il baricentro nel ciclo della corsa rendendola più produttiva. Insomma c’è tutto. E se a questo si aggiunge l’eleganza della sua azione, capace di colpire anche i non esperti, si capisce come finalmente l’atletica azzurra abbia trovato un faro per riacquistare quella popolarità che il crollo dei risultati delle ultime stagioni ha annegato.
Sul fronte dell’eleganza ci sono pochi esempi a cui accostarlo. Era splendido vedere correre sui 100 metri Carl Lewis, ma la corsa dello statunitense era molto più aerea di quella di Tortu e quindi meno produttiva. Ma forse è sulla curva dei 200 metri che Filippo esprime il massimo delle sue qualità estetiche. Nell’ambito italiano è facile assimilarlo a Livio Berruti, ma anche, sempre in curva, a Mauro Zuliani.
Muscoli, doti naturali, ma è soprattutto la testa che sembra fare la differenza a favore del giovane azzurro. Anche nelle dichiarazioni Filippo è sempre misurato, quasi timido. Si vede e si sente un retroterra culturale, la buona educazione frutto di una famiglia di sani principi, quella visione sul mondo che non si esaurisce su una pista di atletica e pure di quegli studi universitari che sta portando avanti con profitto.
Ma adesso arriva la parte più difficile. Un tempo di 9”99 rappresenta davvero l’entrata nell’Olimpo della velocità, ma questo porta anche una vagonata di responsabilità. Basta vedere come la sua impresa madrilena abbia trovato spazio nelle prime pagine di quasi tutti i quotidiani nazionali, la sua voce diffusa da cento radio, fatto che l’atletica non viveva ormai da molto tempo. La popolarità è bella ma è una brutta bestia. Spiegava Josef Polig, medaglia d’oro a sorpresa della combinata ai Giochi Invernali di Albertiville 1992: “E’ tutto bellissimo, ma questa medaglia d’oro rompe l’equilibrio della mia vita, della mia mente. Adesso il mio obiettivo è ritrovare questo equilibrio”. Polig non ce la fece, nei primi allenamenti sulla neve in discesa della stagione successiva prendeva un distacco di tre secondi dai compagni. Era teso, zavorrato, irriconoscibile. E se gli chiedevate perché rispondeva scuotendo la testa: “Non lo so, non capisco, ma quando esco dal cancelletto di partenza non sono più io”. Dopo due anni difficilissimi si ritirò.
Ecco, per Tortu non c’è ancora il peso di un oro olimpico, ma l’aver battuto il 10”01 di Pietro Mennea dà senz’altro una grande responsabilità. Dovrà resistere alle sirene, alle 100 chiamate che gli arriveranno ogni giorno visto che tutti lo vogliono, risultare forse antipatico in qualche occasione, ma è una strada necessaria. Attorno a lui d’ora in poi non sarà più come prima, non potrà più correre solo per se stesso. Ha la fortuna di avere attorno un ambiente che lo sa proteggere. La famiglia soprattutto. Qualche anno fa il papà allenatore Salvino lo fermò all’alba di una stagione quando si accorse che in pochi mesi suo figlio era cresciuto di una decina di centimetri. Le ossa si erano allungate, ma i muscoli i legamenti ed il resto dell’apparato impiegano più tempo. Sapeva che correre in quel momento poteva condurre a gravi infortuni.
Ecco, gli infortuni. Certo, possono capitare, soprattutto nella velocità dove si chiede sempre al motore il massimo dei giri. Quando si hanno le qualità di Filippo è facile farsi male. Basta pensare ai pochi millesimi di secondo del piede a terra durante una volata: minore è il tempo, più è concentrata la pressione sullo scheletro e sulle articolazioni, centinaia di chili per centimetro quadrato. Bisogna crescere con calma, irrobustirsi strada facendo proprio per evitare quegli infortuni che bloccano un atleta per stagioni intere e ne fiaccano l’anima.
Di sicuro papà Salvino è conscio che il suo cavallo di razza ha solo vent’anni, che ha ancora tanti particolari da perfezionare per sfidare davvero l’elité della velocità. Per quest’anno, dopo il passaggio ai Giochi del Mediterraneo che ci mostreranno la reazione di Filippo alla fresca impresa, ci sono gli Europei dove è lecito attendere un suo ingresso in finale se non una medaglietta. E per ora fermiamoci qui. Lasciamogli tempo e serenità. Vorremmo un campione capace di farsi sognare non una primavera, ma i prossimi dieci anni…
Pierangelo Molinaro