Non è facile essere Taylor Fritz, tennista giovane, bianco, in America, dopo i fenomeni mancini Connors e McEnroe, dopo il 7 volte re di Wimbledon, Sampras, e il re della risposta, Agassi, dopo il bombardiere Roddick, ultimo yankee a vincere uno Slam agli Us Open 2003. Non è facile essere figlio di una ex top ten, come mamma Kathy May, e di un papà miglior allenatore olimpico Usa come Guy Henry (tennis pro anche lui e n. 301 nel 1978).
Non è facile mantenere le promesse da junior (finalista al Roland Garros under 18, campione degli Us Open, e numero 1 di categoria a fine stagione 2015), baciato dalla benedizione di “Pistol Pete”, lanciato dall’etichetta di secondo americano più veloce ad arrivare a una finale Atp (dopo il 17enne Michael Chang a Wembley 1989) e secondo a riuscirci appena al terzo torneo, a Memphis 2016, a 18 anni appena compiuti (non a 22 come il gigante John Isner, a Washington 2007), diventando anche il più giovane top 100 mondiale.
Non è facile diventare prestissimo marito (della collega Raquel Pedraza) e padre (di Jordan), rimanere ragazzo normale che vive di video games e social (60mila followers Instagram e 17mila Twitter), che adora i San Diego Chargers di football americano e quello europeo (tifa Manchester United) e, parallelamente, deve vivere il primo, traumatico, saliscendi in classifica, da numero 53 del mondo, come campione emerso dai challenger, a 130. Raggiunto e superato da tanti altri Next Gen, addirittura escluso dalle prime Finals alla Fiera di Rho dell’anno scorso coi migliori under 21 del mondo.
Non è facile rimettersi in carreggiata, quest’anno, perdere la finale challenger di Noumea (peraltro contro l’amico Noah Rubin), perdere nelle qualificazioni degli Australian Open, tornando a vincere un challenger dopo due anni a Newport Beach, e a due passi da casa, a Palos Verdes, riaffacciarsi sul circuito maggiore dell’Atp Tour superando a Delray Beach in tre set Querrey e Youzhny e cedendo di poco a Shapovalov, venir bocciato nel challenger di Indian Wells dal 191 del mondo Darian King ma poi brillare nel Masters 1000 infilando Opelka, Rublev e Verdasco ed arrendendosi solo per un pelo a Coric. Eppoi continuare nel su e giù sconcertante: subito fuori sull’amaro cemento di Miami contro Herbert, semifinali sull’ostica terra rossa di Houston infilando gli altri americani Smyczek, Harrison e Sock, ma poi secondo turno sul rosso europeo a Madrid, primo a Roma, terzo a Lione, primo a Parigi ma al quinto set contro Andreozzi. Con troppe delusioni anche sull’erba: secondo turno al challenger di Surbiton dopo aver passato le qualificazioni, primo Stoccarda, secondo al Queen’s, primo a Eastbourne, secondo a Wimbledon, subendo la seconda bocciatura atletica consecutiva negli Slam, dopo essere stato avanti due set a uno contro Sascha Zverev. Ma Taylor ha insistito, a dispetto dei poveri risultati sul cemento, con tre ko al secondo turno e l’acuto di New York con l’eliminazione al terzo contro Thiem, ma in quattro set corposi. Forte anche dell’aiuto del super-coach Paul Annacone (ex di Federer) che ha affiancato David Nainkin.
Così, in Asia, ha scalato marcia: ha perso in semifinale a Chengdu ma contro Fognini, ha perso subito a Tokyo ma contro Wawrinka, ha perso al secondo turno a Shnaghai, ma dopo aver superato le qualificazioni e con l’onorevole 7-5 al terzo con Querrey, patendo ancora però un calo alla distanze, ma recuperando, praticamente, al 56 del mondo, la miglior classifica di 53 di fine agosto 2016. “Era il primo obiettivo della stagione, il sogno sarebbe partecipare agli Australian Open 2019 da testa di serie”. Bersagli diversi da quelli di Stoccarda 2016, quando aveva sfiorato il colpaccio contro l’idolo, Roger Federer: “E’ stato davvero il primo momento choccante da pro. Quand’ho vinto il secondo set, mi sono chiesto: ‘Ehi, ma che sta succedendo?’. Arrivai a un passo da vincere proprio la partita, ricordo un break point per servire per il match nel terzo set , manche allora mi misi a pensare: ‘Oh, mio Dio, posso battere Roger Federer’. E proprio quel pensiero, invece di giocarmela, mi fece perdere”.
Non è facile essere Taylor Fhritz: da una parte, prorompente gioventù, e quindi potenza nel gioco classico di attaccante moderno da fondo campo che si basa sull’uno-due servizio-dritto, dall’altra, personalità semplice, calma, aspetto sempre in ordine, capelli corti, niente orecchini o tatuaggi, un po’ anni Sessanta. Eppoi la pesante eredità dei genitori, quella dei big del passato, i grandi risultati giovanili, la prima esplosione precoce, la risalita. Ma il purgatorio sembra finito. Sulla strada delle Next Gen Finals alla Fiera di Rho (Milano).
Articolo ripreso da federtennis.it