Siete sussultati anche voi dallo spavento quando, l’altro giorno, in Italia è stata data grande rilevanza sui giornali alla notizia che alcune squadre Nba hanno disegnato sul loro campo allenamento una linea del tiro da 4 punti e si stanno esercitando a prendere conclusioni da oltre 8.80 metri dal canestro, un metro e mezzo più indietro rispetto al normale tiro da tre? Anche voi, in quel momento, nel giorno del noioso record di triple realizzate in una singola gara dagli Houston Rockets (26), avete pensato che la pallacanestro è morta e fosse venuto il momento di dedicarvi a un altro sport? Tranquilli, non è successo nulla. Non mi ricordo chi abbia detto che una bella storia, o un bel titolo ad effetto che susciti curiosità e interesse, non debba mai essere rovinata con la verità…
Che è un articolo di Malika Andrews su Espn che vi invito a leggere. Nel quale non c’era mai scritto che le squadre Nba si allenano a tirare “da 4 punti” ma che molti coach usano marchiare il campo di allenamento con linee reali, ma virtuali per il regolamento del gioco, per rendere più immediato e visivo l’apprendimento dei giocatori, spesso molto giovani e abituati a vedere piuttosto che ad ascoltare. La “linea da 4” punti è stata inventata perché, considerata la sempre maggiore gittata di tiro dei giocatori moderni, occorre iniziare l’attacco, e la giusta spaziatura della squadra, molto più indietro rispetto al passato e alla linea da tre. La “linea da 4 punti” è lì solo per ricordare ed evidenziare questa evoluzione, non per tirare. Stop.
Con un sospirone di sollievo possiamo ricominciare a goderci la pallacanestro anche se la facilità con la quale i giocatori ormai tirano e segnano anche da 9-10 metri, ha cambiato probabilmente in peggio il gioco. Il problema, soprattutto in Europa, che la linea a 6.75 metri dal canestro è troppo vicina e bisognerebbe allontanarla almeno a livello Nba. Ma questo è un altro discorso. Parliamo di Nba vera e di un aspetto che, davvero, cambierà ulteriormente la pallacanestro mondiale dei prossimi 10 anni. Guardavo, pochi giorni fa, Denver-Dallas.
Per vedere Luka Doncic, penserete voi. Non solo: Denver è in testa all’Ovest, è la squadra del momento ed è guidata da Jamal Murray, nato il 23 febbraio del 1997, è illuminata dalla luce perpetua di Nikola Jokic, nato il 19 febbraio del 1995 (unico giocatore della Nba a guidare la propria squadra in punti, rimbalzi, assist, recuperi) e ha promosso in quintetto Juancho Hernangomez, nato il 28 settembre del 1995. Amo gli estremi: sportivamente, le due cose che mi emozionano di più sono ammirare i grandi campioni sfidare il tempo che passa con la loro grandezza e osservare il talento che sboccia, vedere i giocatori appena ventenni che si affermano e lottano per prendere il posto di chi li ha preceduti.
Oggi, se ami i giovani, puoi guardare solo la Nba. La bella Eurolega, anche per la razzia continua dei professionisti americani, ormai è diventata un paese per vecchi. Dite un giocatore nuovo salito alla ribalta quest’anno… Non c’è. Idem la Serie A che è un paese per vecchi, ma soprattutto stranieri. Ho fatto un po’ di calcoli per trasformare in numeri le mie sensazioni: i primi 15 marcatori della Nba hanno un’età media di 27 anni e mezzo, uno e mezzo in meno di quelli dell’Eurolega. Più o meno a metà, ci sono i primi 15 della serie A. Secondo me, non ha senso che il movimento al vertice mondiale presenti squadre più giovani di chi sta ad un livello inferiore.
Vuol dire che la piramide è rovesciata e chi sta dietro ha, anche, un futuro peggiore. Ogni volta che guardo la Nba, vengo affascinato dalla quantità di ottimi giocatori che noi consideriamo “giovanissimi”. E che, nel campionato più bello e competitivo del mondo, dove tutti si aspettano di guadagnare molti soldi e il concetto di mecenate è oltraggioso, hanno in mano le franchigie miliardarie. Alcuni di loro, nati nel 1996 o 1997, sono i top scorer della squadra, come Donovan Mitchell di Utah, Buddy Hield di Sacramento (il secondo è D’Aron Fox) o John Collins di Atlanta (con Trae Young che è un ’98 alle spalle).
Ma potrei citarne almeno altri dieci sotto i 22 anni eccellenti. Se poi aggiungete quelli solo un po’ più vecchi, arrivando a Antetokounmpo o Embid del 1994, avrete l’esatta fotografia del futuro che ci aspetta: la lega più forte, più ricca, più affascinante, più seguita al mondo ha davanti a sé almeno un altro decennio nel quale il divario, già notevole, con l’Europa si allargherà a macchia d’olio. Perché ha una marea di giovani che sanno giocare a pallacanestro, sono atleti eccezionali e stanno esplodendo.
L’Europa cestistica sta invecchiando e non riesce più a produrre giocatori sufficienti ad alto livello per alimentare se stessa e la Nba (oggi gli europei sotto contratto sono 63). Noi viviamo ancora dei luoghi comuni di vent’anni fa: i professionisti non si allenano, non insegnano a giocare e rovinano i giovani giocatori utilizzandoli solo come specialisti. Verissimo, una volta: pensate le condizioni nelle quali ci avevano restituito anni fa un gigante continentale come Jan Vesely. Ma i tempi sono cambiati.
Oggi siamo noi a non avere un programma tecnico per sviluppare i nostri talenti ad alto livello. I professionisti hanno imparato a lavorare sui giovani e si fa fatica a immaginare non solo che giocatori dotatissimi, come Antetokounmpo, Jokic o Porzingis, ma anche ragazzi “normali”, da Osnan a Hernangomez o dall’ultimo promosso in quintetto, Furkan Korkmaz di Philadelphia, sarebbero diventati più forti di quanto non lo siano oggi restando in Eurolega, come invece era logico pensare qualche anno fa. L’Europa deve reagire, mettere di nuovo la produzione di giocatori al centro delle sue politiche e regole sportive perché altrimenti è destinata a cibarsi degli scarti del mercato americano.
Svalutando, così, l’attività dei suoi club e delle nazionali. La guerra tra Fiba e Eurolega è la fotografia di quanto l’Europa non abbia capito che il momento è grave e che se la Nba ha già pronti i successori di LeBron, l’Europa dei club e della nazionali deve sperare che Spanoulis, Rodriguez, Llull giochino in eterno. Pensandoci bene: il tiro da 4 punti, a 40 anni, li aiuterebbe un bel po’…