A volte riusciamo a stupirci di quello che quotidianamente abbiamo sotto gli occhi. Di quello che non vogliamo a volte vedere. E’ di pochi giorni fa un preoccupante servizio della BBC che parla del doping nello sport amatoriale. A un sondaggio dell’emittente britannica l’8 per cento degli intervistati ha ammesso di fare uso di sostanze vietate ed il 35 per cento di conoscere compagni di fatica che ne fanno uso.
Numeri preoccupanti e forse nemmeno troppo vicini alla verità. Ci scandalizziamo quando qualche campione cade nella rete dei controlli antidoping, ma i professionisti, gli atleti che occupano le pagine dei giornali e le aperture dei siti web sono solo lo specchietto delle allodole. Il vero mercato delle sostanze vietate è quello amatoriale, centinaia di migliaia di persone, milioni nel mondo, che pur di incrementare le loro prestazioni sono disposti a vendere l’anima al diavolo e a correre seri rischi con la salute.
I CONTROLLI E’ questo il mercato perfetto, soprattutto alla luce di una disponibilità finanziaria che un giovane non può avere, di una mentalità che non accetta l’inevitabile calo di prestazioni nel tempo. Ma il tempo non si ferma e doparsi è ingannare, oltre agli avversari, pure se stessi. E siccome i controlli antidoping costano cari, nell’ambito amatoriale sono stati rari, ma questi pochi casi hanno dato riscontri spesso addirittura comici.
LE FUGHE Come una gara ciclistica in Sicilia. Oltre trecento partenti, ma al traguardo c’erano i carabinieri dei Nas ad aspettarli. La notizia è arrivata in gruppo, così, al traguardo, sono arrivati in… 15. Gli altri? In fuga, non per vincere, ma per scappare all’eventualità di un controllo antidoping. In altre situazioni sono emersi risultati rabbrividenti. Sessantenni che fanno uso di gonadotropine corioniche, iperdosaggi di eritropoietina e di steroidi anabolizzanti, utilizzo persino dell’insulina con cui si curano i sofferenti di diabete. Senza contare i pool di farmaci assunti contemporaneamente. Situazioni davanti alle quali anche luminari della farmacologia vi risponderanno senza esitazioni: “Non sappiamo dire quali conseguenze questi trattamenti possono avere, Certe sperimentazioni non le conduciamo neppure sugli animali”.
IL MERCATO C’è chi fa da sé e chi si affida a medici e farmacisti compiacenti. Reperire le sostanze vietate è sorprendentemente facile, c’è pure il mercato di internet, che comunque non dà alcuna garanzia né di qualità né di igiene. Vent’anni fa c’era chi si era ammalato della “sindrome della mucca pazza” per aver utilizzato l’ormone della crescita estratto dall’ipofisi dei morti, ora c’è chi si è visto diagnosticare malattie equatoriali senza essere mai stati all’Equatore.
Si è accennato al ciclismo, ma sono un po’ tutti gli sport di resistenza ad essere afflitti da questa piaga. Si va un po’ meglio per le discipline di potenza e di velocità, dove con il salire dell’età, sono più facili gli infortuni muscolari, che finiscono per fermare questi pseudo atleti. Senza parlare delle palestre, dove si gonfiano i muscoli neppure con fini prestativi, ma solo per un aspetto estetico.
LA RADICE Ma perché il fenomeno si è esteso così a macchia d’olio anche nell’ambito non competitivo? E’ frutto di una mentalità sbagliata. La più grande operazione di marketing di tutti i tempi è stata forse quella delle case farmaceutiche che sono riuscite a vendere i farmaci ai sani. Come? Chiamandoli “integratori alimentari”. Vitamine, sali minerali, proteine per rimanere ai prodotti leciti. Ma il punto è questa cascata di prodotti ha fatto passare a livello subliminale un messaggio pericolosissimo: “Quello che siamo non è sufficiente”. Ci danno una pillola per studiare, un’altra per lavorare, un’altra per fare sport, persino per fare all’amore. Ci devono dire quale attività rimane ancora della nostra vita che possiamo svolgere senza ricorrere ai farmaci.
LA SOLUZIONE La soluzione a questo problema forse non c’è. Ci vorrebbe la cultura, quella che ci dà i limiti etici delle nostre azioni e le possibili conseguenze, anche sul nostro corpo, dei comportamenti scorretti. O forse solo la coscienza che lo sport è sì la ricerca dei propri limiti, ma che una volta raggiunti questi limiti vanno accettati. Sennò lo sport diventa velenoso.
PIERANGELO MOLINARO