Ma appena cambiamo canale tv, ecco la luce, ecco spettacoli di calcio e basket che ci fanno stropicciare gli occhi, e sorridere, e ci costringono a fermarci finalmente su un canale solo, persino per la pubblicità. Che ridiventa una pausa accettabile, prima di nuove emozioni. Non dite: troppo facile, con gli investimenti e gli stipendi che girano da quelle parti, è chiaro che altrove, nell’Nba come nella Liga di calcio spagnola, ci sia la crema della crema degli atleti, è chiaro che lo spettacolo sia super, altrimenti non ci sarebbero altre 650 milioni teleutenti, ovunque, sulla faccia della terra. Ed è anche evidente che quella è la massima espressione di un’arte, così come la Gioconda o la Cappella Sistina. Nessuno lo discute. Nessuno lo contesta. I numeri sono numeri. Ma chi ha fatto o segue davvero un po’ di sport – non da tifoso cieco e sfegatato – sa anche che, in Italia, non finiamo mai compiutamente un’azione, nello sport come nella vita. Restiamo a metà, non rischiamo davvero, non affondiamo davvero il piede sull’acceleratore, non concludiamo davvero il tiro pieno ma cerchiamo piuttosto il fallo, non completiamo l’addestramento tecnico e fisico, non diamo spazio ai giovani, non ci schieriamo dichiaratamente a destra o a sinistra, piuttosto ci pieghiamo, accettiamo, contestiamo alla macchinetta del caffé l’allenatore, l’arbitro, il padrone, il segretario di partito, e restiamo nel limbo del centro, ignavi come ci condannerebbe Dante, pronti a schierare il veterano che lotta per lo zero a zero, per l’annullamento dell’avversario, non per il più impensabile dei successi in extremis.
Eppure, all’estremo, c’è il rischio, ma c’è anche lo spettacolo, e ci sono personaggi diversi, unici. Che, quando poi nascono casualmente in Italia, riconosciamo subito e idolatriamo, da Alberto Tomba a Valentino Rossi. Personaggi non facili, non sempre politically correct, più spesso controcorrente, perché continuamente all’attacco, alla ricerca di sé stessi e del proprio limite. Eppure, noi italiani, siamo stuzzicati da quello, siamo geneticamente quello, siamo famosi nel mondo proprio per quello, per saperci differenziare, vuoi con la moda, vuoi col cibo, vuoi con le nostre bellezze paesaggistiche, uniche ed estreme, vuoi con i “cervelli”, ormai sempre più emarginati e/o in fuga.
Dal nostro marasma, dalle amarezze di una domenica sportiva un po’ così, con troppi gol e troppe difese ubriache, all’improvviso, dalla tv, spunta Messi, quello barbuto che non avevamo riconosciuto contro la Juventus in Champions League, quello che non riusciva proprio a uscire dalla gabbia che gli aveva chiuso addosso Allegri, negandoci l’allegria del calcio-champagne, per garantirsi – giustamente, figuriamoci – una semifinale che profuma di storico trionfo. Risvegliato da una gomitata, dal sangue in bocca, dal fazzoletto stretto fra i denti, La Pulce ha ripreso a saltare e a finalizzare il tiki-taka stantìo del Barça come solo lui può fare. Sprizzando velocità, classe e fantasia in uno spettacolo che già era grandioso, dove ogni azione poteva accendersi nel gol, senza peraltro negarci la bellezza di cinque realizzazioni, tutte vissute, tutte estreme, tutte corali, tutte eccitanti, e fino all’ultimissimo istante, fino a regalarci il 3-2 più elettrizzante ed indimenticabile. Cinquecento gol segnati con la stessa maglia dovrebbero dire a noi italiani – soprattutto ai dirigenti italiani – che un’identità di squadra è fatta di fedeltà, come succede alla Juventus, con quell’ossatura Buffon-Bonucci-Chiellini-
Vincenzo Martucci