C’è stato anche il brivido, il lungo agghiacciante brivido, che nel golf è improvviso e spesso fatale. Un brivido non per il freddo, che è calato improvvisamente sul Royal Birkdale, a Southport in Inghilterra, ma per il drive sbilenco che, alla buca 13, ha costretto il texano Jordan Spieth a tirare dal campo pratica prima dello sprint decisivo per vincere il 146° Open Championship con 268 colpi (65 69 65 69, -12). Pazzesco: alle 17.35, la palla del capolista Spieth era quasi ingiocabile e lo statunitense chiamava i giudici per un drop, alle 18.50, dopo aver steso il rivale Matt Kuchar con tre birdie ed un eagle era sulla 18 ed alzava al cielo il famoso Claret Jug, il trofeo del re del British Open. Era il terzo torneo dello Slam dell’anno, ed è anche il terzo vinto dallo statunitense, dopo il Masters e l’US Open del 2015, cui ora manca il PGA Championship (il 10-13 agosto al Quail Hollow Club di Charlotte, North Carolina) per completare lo Slam personale ed entrare nell’élite dei sei immortali che hanno vinto tutti i grandi tornei, appunto, Jack Nicklaus, Tiger Woods, Ben Hogan, Gary Player e Gene Sarazen. Con quest’impresa, oltre a salire al secondo posto nella classifica mondiale dietro Dustin Johnson il picchiatore, Spieth si mette soprattutto e prepotentemente in evidenza sotto i riflettori del golf come secondo giocatore – dopo il mitico Jack Nicklaus – a imporsi in tre Major prima di compiere 24 anni (li fa giovedì). E ci riesce nel torneo più antico del suo sport che ha segnato il record di spettatori in Inghilterra, perché addirittura 235.000 hanno affollato i campi del famoso percorso del Royal Birkdale.
Nella storia di tutti i golfisti c’è un torneo da incubo. Per Spieth è il Masters di 15 mesi fa. Certo, vincere subito dopo, nel suo Texas, lo ha aiutato, così come i tre ulteriori successi in giro per il mondo. Ma il harakiri nelle ultime 9 buche di Augusta, quand’era avanti di quattro colpi ed aveva quasi in mano la seconda gioca verde consecutiva, deve averlo frustrato enormemente – insieme al ricordo di quei sette colpi tragici per chiudere la buca e due palle in acqua -, alimentandogli il terrore di non saper chiudere i grandi tornei ed afferrare le grandi occasioni. E così, quand’ha infilato quattro bogey nelle prime 9 di domenica, facendosi riacciuffare a -8 in testa alla gara che stava dominando, poteva andare in tilt totale in quella drammatica buca 13.
Che succede in quei momenti? “Ero così in fiducia e un attimo dopo è come se le ruote venissero fuori del tutto. Non è stato facile. Quest’ultimo giro mi è costato più di qualsiasi altro giorno che ho giocato a golf”. La pressione incute mille dubbi: “Qusta palla la sto spingendo o la sto tirando? O sto facendo tutt’e due? Che succede con questo colpo? Mi è venuta fuori ogni forma di paura, mi sembrava che mi portasse via non solo da Kuchar ma anche da tutta quella gente che mi guardava. Mi veniva tutto nella testa, ed è dura nei due-tre minuti che cammini fra un colpo e l’altro. Non puoi essere cieco, il pensiero si insinua lo stesso”.
Il pensiero gli dev’essere letteralmente esploso nella testa alla buca 13, quand’ha sbagliato clamorosamente il drive e, mentre vedeva la palla svoltare pericolosamente a destra, e finire chissà dove, il povero Jordan s’è messo anche la mani nei capelli, disperato. E’ stato bravo e freddo a valutare la linea giusta, dopo 21 minuti di discussione coi giudici – sorry Matt Kuchar! – e ha salvato la buca e la gara con un bogey. Con tanto di complimenti dallo sconfitto: “Jordan è un grande campione e ha giocato da tale nel finale di gara. Quando uno fa qualcosa del genere puoi solo sederti, toglierti il cappello e dirgli: “Ben fatto”. Perché ha dato veramente spettacolo”.
Dal Masters 2016 all’Open 2017, Spieth non potrà dimenticare: “Ci sono tante strade per arrivare. La chiusura vdi oggi è stata estremamente importate per come ora posso guardare a me stesso”. Appuntamento al PGA Championship del 10-13 agosto.
Vincenzo Martucci