L’avvicinamento a Tokyo, per i giornalisti, è una discesa all’inferno quando arriva il momento di installare una applicazione, chiamata Ocha, che ha molte funzioni, la principale delle quali è permettere al Governo giapponese di tracciare il telefono su cui è stata scaricata. E’ la prima volta che questo accade nelle Olimpiadi ed è un segnale inquietante perché va al di là dell’esigenza, la pandemia del Covid 19, da cui scaturisce un controllo così totalizzante. Nella seconda puntata del diario olimpico giapponese, la app Ocha e un altro micidiale strumento di informazione sui movimenti dei giornalisti, l’Activity plan, diventano i grandi protagonisti.
Prima di approfondire queste procedure, però, devo doverosamente correggere un errore nel racconto di ieri, relativo alla possibilità di rimborso degli alberghi. Avevo detto che, nel momento in cui l’Olimpiade di Tokyo era stata rinviata di un anno, fu offerta ai giornalisti la possibilità di disdire la prenotazione dell’albergo e di riavere la somma fino ad allora versata, che era il 50% del totale del pagamento (l’altro 50% si sarebbe pagato nei primi mesi del 2021). In realtà, la somma da rimborsare su richiesta del giornalista che avesse deciso di non andare più a Tokyo non era la prima parte del pagamento nella sua interezza, ma decurtata del 30% di quanto versato. Quindi, l’Olimpiade viene rinviata di un anno, succede che un giornalista non ci debba più andare per svariati motivi (va in pensione, cambia azienda, il suo giornale riduce il numero di inviati e così via), ma dal rimborso dell’albergo la cui prenotazione è cancellata viene detratto il 30 per cento. Cos’è, una tassa, e nemmeno occulta? Non si sta parlando di una cancellazione per responsabilità di chi ha prenotato, ma di un rinvio di un anno intero per il quale non può esistere l’obbligo di conferma. Ma gli organizzatori hanno bisogno di recuperare quanti più soldi possibili e naturalmente lo fanno a spese dei più deboli, i giornalisti.
Ma torniamo a quella che ho definito come “una discesa all’inferno”. L’applicazione Ocha ha due funzioni fondamentali: la prima, serve a tracciare tutti gli spostamenti del giornalista; la seconda, va usata anche per inviare, ogni giorno, le informazioni sullo stato di salute dello stesso, con una piccola differenza a seconda che il giornalista sia da solo a rappresentare una testata di stampa o sia free lance, o se ci sono più inviati di uno stesso giornale o Tv o qualsiasi altro mezzo di informazione. Nel primo caso, il singolo giornalista invia le informazioni sul suo stato di salute (sintomi, temperatura, medicine che si stanno prendendo) con Ocha; nel secondo caso, la testata giornalistica nomina un responsabile che manda le informazioni su tutti gli inviati di quella testata. Ovviamente, la app Ocha deve essere presente nel telefono di ogni giornalista, anche nel caso l’invio delle informazioni sullo stato di salute viene effettuato da un solo responsabile per tutti gli altri del suo gruppo, perché comunque ognuno deve essere tracciato e individuato in ogni momento della giornata.
Il giornalista ha anche la responsabilità di tenere sempre acceso il telefono, proprio per permettere il tracciamento. Se lo spegne, viene chiamato a spiegare perché lo ha fatto e possono scattare avvertimenti e sanzioni, fino al ritiro dell’accredito e all’obbligo di tornare nel proprio Paese. Insomma, il Grande Fratello di Orwelliana memoria è un dilettante al confronto. Ma non è questo il peggio. Infatti, viene naturale la domanda: che senso ha sapere in ogni momento dove si trova il giornalista? E qui arriva il vero motivo del tracciamento. Il Comitato organizzatore ha fissato posti precisi dove i giornalisti possono andare, e solo lì: Centro stampa, stadi e palazzetti, centri di allenamento, quasi niente altro, viene concessa solo la possibilità di andare nelle strutture adibite a Ospitalità dai Comitati olimpici nazionali, come Casa Italia, il posto in cui tradizionalmente il Coni predispone l’accoglienza per ospiti e giornalisti con l’opportunità di incontrare gli atleti, in particolare quelli medagliati, in modo da facilitare il lavoro di cronaca e interviste. Quindi, se un giornalista vuole muoversi liberamente dentro Tokyo non può farlo. E non può prendere mezzi pubblici per i primi 14 giorni della sua permanenza in Giappone, ma solo quelli forniti dall’organizzazione.
Per realizzare questo controllo è stato inventato l’Activity plan. Ogni giornalista deve compilare un modulo, appunto l’Activity plan, in cui deve indicare i posti, in generale, dove prevede di andare. Il Comitato organizzatore riceve questo Piano di attività lo passa al Governo giapponese, che lo esamina e, per ogni giornalista, approva o respinge i vari posti indicati. Quando poi cominciano le gare, ogni giorno il giornalista deve comunicare dove andrà il giorno dopo, ammesso fra l’altro che abbia ricevuto il biglietto per le gare alle quali ha chiesto l’accesso, perché c’è sempre l’eventualità che non ne riceva nemmeno uno e sia costretto a stare fermo in albergo o nel Centro stampa. Ma restiamo per il momento al quadro generale, quello che precede l’inizio delle gare.
E qui arriva l’altra grande, e pessima, sorpresa: fino a quando l’Activity plan non viene approvato, l’app Ocha non comincia a funzionare. Qual è il senso? Se l’Ocha non funziona, il giornalista non può essere tracciato, quindi non è autorizzato a muoversi dall’albergo. L’Activity plan in teoria dovrebbe essere approvato prima della partenza per il Giappone. In realtà, è successo che nessuno di questi Piani di attività è stato approvato prima che i giornalisti di tutto il mondo, non solo dell’Italia, prendessero l’aereo per Tokyo. Perché non è stato approvato? Faccio un esempio concreto di quello che è successo, il mio, così si capisce in quale girone infernale dantesco ci siamo ritrovati tutti quanti.
Compilo l’Activity plan e lo spedisco 5 giorni prima della scadenza fissata per il suo invio. Aspetto l’approvazione. La mia partenza per Tokyo è prevista per il 16 luglio. Dopo due settimane ricevo una email dal Comitato organizzatore, traduco in parole povere: “Il tuo piano ha bisogno di una correzione, hai indicato un posto in cui non puoi andare, cancellalo e rispediscici l’Activity plan entro 36 ore dalla ricezione di questa email, altrimenti il Governo giapponese non potrà fare in tempo a inserirti nell’elenco dei giornalisti autorizzati ad arrivare a Tokyo nei giorni dall’11 al 18 luglio”.
E’ una richiesta paradossale. Hanno aspettato due settimane per chiedermi di variare il piano e mi chiedono di rispondere entro 36 ore con la minaccia di non farmi entrare in Giappone nella data prevista. Correggo immediatamente l’Activity plan, cancello il posto vietato e rispedisco tutto dopo appena mezzora da quando ho ricevuto l’email. Sono a posto, ho risposto con un anticipo di 35 ore e mezza rispetto al limite fissato dagli organizzatori.
La mattina dopo, quando non sono nemmeno passate le 36 ore fissate dagli organizzatori come limite per rimanere autorizzato a entrare in Giappone entro il 18 luglio, mi arriva un’altra email: “Abbiamo ricevuto la tua correzione, grazie. Purtroppo, il Governo non ha fatto in tempo a inserirti nella lista degli autorizzati a entrare in Giappone entro il 18 luglio. Devi quindi scegliere un’altra data, dal 19 luglio in poi, per arrivare a Tokyo”. Dovrei far notare che se loro fissano un limite e tu lo rispetti non possono uscirsene con questa colossale vaccata di comunicazione secondo la quale, a pochi giorni dalla mia partenza per Tokyo, dovrei cambiare il biglietto aereo, trovare posto in un altro aereo in giorni in cui tutti gli aerei per il Giappone sono ormai pieni, perdere i primi giorni in albergo nonostante abbia già pagato e così via in una vicenda sempre più Kafkiana. Ma preferisco far notare, con una email nella quale mi sforzo inutilmente di moderare i toni, che hanno la faccia esattamente come “il con cui si siedono”, che non cambierò aereo e arriverò a Tokyo il 17 luglio, e se vorranno fermarmi che ci provino pure, vediamo come va a finire. Nello stesso tempo faccio presente al Coni la paradossale situazione in cui mi trovo, ricevendo un aiuto fondamentale per risolvere tutto. Infatti, il giorno dopo, gli organizzatori giapponesi rispondono sia al Coni, sia a me direttamente, scusandosi per l’accaduto e assicurando che sono autorizzato ad arrivare il 17.
Tutto risolto? Sì, buonanotte. E’ risolto solo il problema della partenza, il resto è un mare in tempesta, e non solo per me, ma per i giornalisti di tutto il mondo. Prima della partenza, siamo obbligati a fare due test anticovid molecolari, in giorni distinti, il primo entro 96 ore dall’arrivo a Tokyo, il secondo entro 72 ore. Se uno dei due test è positivo non si può partire. Scatta la domanda da “Comma 22” (quello famoso di chi non vuole andare in guerra: “Chi è pazzo può chiedere di non andare in missione di guerra, ma chi chiede di non andare in missione di guerra non è pazzo”, quindi ci vai e basta): ma se il primo test è positivo, come può essere negativo il secondo? E se il secondo è positivo, a che serve sapere com’è il primo? Un po’ di logica: basta un test il giorno prima di partire. Ma vale la logica con questi organizzatori giapponesi? Comunque, il 14 e il 15 luglio faccio i due test, entrambi negativi, posso partire.
Mi sto avvicinando alla meta, o almeno penso di stare avvicinandomi! Non immagino quello che sta per succedermi. I dati sicuri sono questi:
1) Ho il biglietto aereo per Tokyo.
2) Ho l’accredito stampa per l’Olimpiade.
3) Ho un albergo prenotato a Tokyo.
4) Ho effettuato tutti i test richiesti per stabilire che non ho il Covid.
5) Ho effettuato tutte le procedure richieste dagli Organizzatori.
6) Ho effettuato tutte le procedure richieste dal Governo giapponese.
7) Ho installato l’app Ocha per il mio tracciamento minuto per minuto in Giappone.
8) Sto aspettando l’approvazione dell’Activity plan, senza la quale la stessa Ocha non entra in funzione, con misteriosi sviluppi, in questo caso, difficili da prevedere.
Ecco, sospetto che quest’ultimo punto possa provocare qualche problema, ma sono fiducioso. In fondo, dopo l’intervento del Coni e la mia sfuriata via email, gli organizzatori hanno riconosciuto di avere torto, hanno chiesto scusa e hanno detto che sono autorizzato ad arrivare a Tokyo. Eppure, avverto una sensazione che non mi lascia tranquillo. Ma mi sto sbagliando. Sì, perché è molto peggio del peggio che io possa mai immaginare. Me ne accorgerò all’arrivo all’aeroporto “Haneda” di Tokyo, lì dove sarà proiettato il film “L’Apocalisse era Disneyland, al confronto”, con me grande protagonista! Restate sintonizzati.
Dal nostro inviato Gennaro Bozza (foto tratta da San Marino TV)
(2 – continua)