Il timing, nella vita e nel tennis, è tutto. Timing sta per tempismo, sincronizzazione, una parola sola che racchiude tante azioni insieme: colpo d’occhio, scelta, giudizio, controllo di qualcosa che dovresti fare in un certo modo preciso. Ed è esattamente la parola chiave, l’azione che compi ogni qual volta colpisci la palla, perché se arrivi con il tempo sbagliato, troppo presto o troppo tardi, se stai troppo lontano o troppo vicino all’oggetto del desiderio, se colpisci un attimo prima o un attimo dopo, hai perso il tempo giusto d’impatto e quindi di realizzazione del colpo, quello ideale. Hai perso il tempo, che passa automaticamente all’avversario, e ti costringe a correre, a inseguire, a compiere una reazione involuta, spesso punitiva. Subito, nel tempo presente, o più tardi, nel tempo futuro, che sia immediato o posticipato.
Il timing è in ogni colpo del tennis, dal servizio alla risposta, dai colpi da fondo campo alle volée. Il suo nemico giurato è
la stanchezza, certo, mentre l’alleato migliore è la forza di volontà, cioé l’abnegazione, il desiderio di superare il limite e di non mollare. Perché il timing si allena, come tutto, ma è soprattutto una questione mentale. Di concentrazione, di abitudine,
di sforzo. Come insegna quel mostro di auto-determinazione che è l’agonista ideale Rafa Nadal. Da cui scaturisce la forza
di superare il tiranno-tempo, prenderne il timone, dominarlo, cambiarne le dinamiche, fino a modificarlo totalmente con l’anticipo e il ritardo dell’impatto della racchetta sulla palla. Per riuscirci, tutto il corpo dev’essere votato a quell’unica missione, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, e deve scattare come una molla per essere perfetto e ottenere il massimo risultato. La fotografia ideale di tutto ciò è la risposta, che è anche doti naturali ed allenamento, certo, ma è soprattutto resilienza. Il timing decide l’attimo fuggente. Ma il tennis dipende comunque dal tempo in generale. Intanto, c’è quello, indeterminabile, della partita. Non c’è regola, non c’è novità, non c’è pronostico che tenga: ci vuole il tempo che ci vuole prima che il giudice di sedia pronunci il fatidico “game, set and match, mister Rossi”, e i due contendenti si stringano la mano a rete. Basti pensare all’incredibile epilogo di una partita storica, la finale del Roland Garros 2004, con “El gato” Gaston Gaudio che, dopo aver perso i primi due set (perso 6-0 6-3) nel derby argentino contro “El mago” Guillermo Coria, faceva segno al suo clan in tribuna che di lì a poco si sarebbe ritirato, dopo un’oretta, ma poi ha vinto i successivi due (6-4 6-1), con l’avversario bloccato dai crampi. “Ebbi bisogno di dieci minuti prima che la pomata del fisioterapista facesse effetto”, avrebbe raccontato il povero Coria che non sarebbe più riemerso da quella disfatta. Perché, dopo aver salvato due match point, quel diavolo di Gaudio impiegò 3 ore 27 minuti per andare per la prima volta al comando nel punteggio, e ce ne mise appena 4 per spuntarla miracolosamente per 8-6 al quinto set.
Quanto ci vuole per vincere una partita di tennis? Un’ora, due, tre, a volte anche giorni, com’è successo per anni nei tornei open fino alla comparsa dei tetti salva spot pubblicitari della tiranna tv. Chi cancellerà mai la lapide di Wimbledon in ricordo delle 11 ore diluite in tre giorni di un incredibile Isner-Mauhut del 2010 chiuso per 70-68 al quinto set? Chi potrà dimenticare, viceversa, la finale-lampo Graf-Zvereva di appena 32 minuti al Roland Garros 1988? Due risultati assurdi, anche in rapporto alle superfici, la partita più lunga è sulla superficie più veloce – l’erba – e fra due uomini che, in teoria, con la maggior incidenza del servizio dovrebbero essere ancor più celeri, la più rapida è sul campo rosso, in generale più lento, per di più in un match donne, che ci impiegano di più a trovare la soluzione e sono più soggette ad alti e bassi.Anche il tie-break accorcia, riduce, ma non taglia drasticamente i tempi con precisione assoluta. E, il tempo, si sa, in una gara in generale e nel tennis in particolare, non porta consiglio, anzi, porta dolorini, problemi, complicazioni, dubbi, paura. Il tempo trasfigura, rimette tutto in discussione, rovescia la realtà più certa di un minuto prima. Basti la storia dei match in cinque set, cioé negli Slam e in coppa Davis, i più indecifrabili perché diversi da quelli tradizionali sulla, distanza breve dei tre set, e quindi legati a resistenza, fisica e mentale, all’abitudine alle maratone, alla capacità di modificare le cose e rispettare completamente il tempo precedente, per cambiare quello che verrà. Anche se, inevitabilmente, il passar del tempo, richiama pensieri terribilmente malefici come: “Non ho più forze, guarda quello lì invece come zompetta arzillo come al primo game, mi fa male qui, mi fa male lì…”.
Il tempo è talmente utopico, e insieme interpretabile, nel tennis, che chi comanda ha imposto il cronometro in campo. Con
due orologi ai due estremi del campo che scandiscono i fatidici 25 secondi fra un punto e l’altro. Perché, diciamolo, la perdita di tempo e il furto del tempo, sono armi tattiche prodigiose. Da chi batte, che ritarda la rimessa in gioco ad arte, toccandosi
qui e là, e palleggiando prima del servizio, 20-30 volte – ogni riferimento a persone e cose è fortemente voluto, da Nadal a Djokovic -, a chi risponde e alza la manina adducendo come scusa uno spettatore che si muove, un bruscolo nell’occhio, un insetto invisibile che lo tormenta. Per non parlare del tempo che se ne va, e sminuisce il coraggio del vecchio campione che sa di essere all’ultima spiaggia – vedi l’ultima, disperata, nervosissima, Serena Williams nella finale degli Us Open di settembre -, o rafforza quello del giovane leone che vede spazi immensi davanti a sé. E qui gli esempi sarebbero fin troppi, a cominciare proprio dall’ineffabile Naomi Osaka, la castigatrice di Serena, sotto il traguardo di New York a un passo dai 24 Slam record della campionessa. Mio tiranno, dammi tempo, prendi tempo.
*Pubblicato su Il Giornale-Style