Il concetto di Accademia come fucina di talenti, allenamenti di massa, stacanovismo e pugnalate alle spalle. Nel documentario prodotto da una delle prime allieve di Nick Bollettieri, Anne White, sulla vita e le imprese dell’intramontabile coach, non c’è spazio per lo “sugar-coating” (anche perché nemmeno lo zucchero riuscirebbe ad addolcire certi pilloloni). “Nick ha ferito parecchie persone ma si è sempre assunto la responsabilità delle proprie azioni”, ha raccontato la produttrice di “Love Means Zero”, forse ripensando alla scena in cui Courier ripercorre la Finale del Roland Garros 1991, quando l’allenatore lo “tradì” sedendosi nel box di Agassi, guidato da un irrefrenabile istinto imprenditoriale. Uno dei tanti colpi di scena che hanno fatto la storia del tennis, come quello di cui si è resa protagonista la stessa White, la quale nel 1985 fece scalpore a Wimbledon per il suo aderentissimo outfit. Trattasi di altri tempi, vero, ma ad oggi il problema del sessismo in Tour permane: “viviamo in un mondo di uomini”, le parole della statunitense oggi al timone del Beverly Hills Tennis Club.
Giocatrice, produttrice, direttrice: le tre vite di Anne, che si è raccontata senza filtri, come il suo Love Means Zero.
Si è divertita di più a fare la giocatrice o la produttrice?
“Si tratta di belle esperienze, anche se non userei esattamente la parola “divertimento” per definire la carriera da tennista (ride, ndr). Quando giocavo non c’erano i team itineranti, eravamo molto più isolati, è stato duro ed intenso. Girare “Love Means Zero” invece è stato come chiudere un cerchio perfetto, Nick è straordinario e sono grata per la mia esperienza con lui”.
È stata una delle prime allieve di Bollettieri e tre anni fa hai deciso di produrre un documentario sulla sua vita ed il fenomeno della celebre Academy, come è nata l’idea?
“Quando ho iniziato ad allenarmi con lui non era ancora un’Accademia, Nick seguiva un piccolo gruppo di studenti al Colony Beach Hotel, ma poco dopo il mio arrivo iniziarono ad aggregarsi altri giocatori come Paul Annacone e Pablo Arraya. Nel 2014 ho visitato la nuova IMG Academy e non riuscivo a credere ai miei occhi: è gigantesca. A quel punto mi sono detta che qualcuno doveva raccontare l’evoluzione di quel posto”.
Nel corso del documentario Boris Becker esclama: “Bollettieri non ha mai vinto un match nella sua vita ma sapeva come fartelo vincere”, come si spiega una cosa del genere?
“All’accademia c’era un ambiente molto competitivo. Essere sul campo di Nick significava tanto per i ragazzi, volevano tutti catturare la sua attenzione. Vivere in un ambiente del genere ci rendeva migliori, nessuno aveva lo stesso tipo di gioco, l’atmosfera creava una mentalità tale per cui il livello dei giocatori si alzava ogni anno. Era un modo intelligente di allenare, Nick è stato un pioniere in questo”.
Love Means Zero è un documentario crudo in cui viene esposto anche il lato peggiore di Bollettieri, attraverso episodi che hanno segnato nel profondo campioni come Courier ed Agassi… Ha avuto paura di mostrargli il prodotto finale?
“Sì, molta. È un documentario autentico, vero, intenso. Love Means Zero racconta l’ascesa di Bollettieri e quello che succede dietro le quinte quando leggiamo delle separazioni tra coach e giocatori. Fare il coach è difficile, come è difficile trovare qualcuno di cui fidarsi quando sei un atleta. Nick ha deluso parecchie persone ma nella vita si commettono inevitabilmente errori. Il successo ha un prezzo e il tennis è un business, le persone a volte se lo dimenticano e di conseguenza vengono ferite. Lui si è sempre assunto le proprie responsabilità.”.
Come descriverebbe il suo rapporto con Bollettieri?
“È sempre stato ottimo. Senza Nick e la borsa di studio che mi ha offerto non sarei mai riuscita a diventare una professionista. Ho un rispetto immenso per quello che fa e ogni volta che mi trovo in Florida vado a trovarlo”.
Qual è la lezione più grande che ha imparato da lui?
“Nick è uno stacanovista ed un motivatore. Mi ha insegnato ad avere fiducia in me stessa e a non mollare mai perché a volte puoi dare molto di più di quanto credi. Bisogna puntare all’eccellenza”.
Guardando al fenomeno delle accademie, oggi diffusissimo, quali caratteristiche distinguono una buona struttura dalle altre?
“Sono essenziali degli ottimi leader e dei grandi motivatori, persone ricche di passione, come Nick. Alcune accademie oggi sono motivate dalla quantità, dai soldi e dal numero di giocatori che riescono ad accogliere, piuttosto che dalla qualità. Quando si lavora con ragazzini così giovani bisogna avere una certa sensibilità, le loro personalità si stanno appena formando, così come i loro corpi. Oggi il gioco sta diventando estremamente fisico quindi occorre assicurarsi di non spingerli troppo al di là dei propri limiti fisici e mentali”.
Oggi dirige il Beverly Hills Tennis Club, come sta vivendo quest’esperienza? Ha ricevuto consigli da Bollettieri?
“Certo! Nick mi ha sempre dato ottimi consigli, mi ha detto di divertirmi e di focalizzarmi sui pregi che hanno i giocatori più adulti e provare a migliorare ulteriormente quegli aspetti. Il Beverly Hills Tennis Club un circolo incredibile, un pezzo di storia di Los Angeles, è stato fondato circa 90 anni fa da Charlie Chaplin e Groucho Marx. Di recente ho iniziato il junior programme; adoro condividere insieme ai ragazzini le esperienze e la conoscenza che ho di questo sport. Inoltre, un paio di anni fa ho reso Tommy Haas membro onorario del club, quindi un paio di volte alla settimana viene qui ad allenarsi. L’altra volta stavamo parlando proprio del vostro Jannik Sinner e di che giocatore incredibile sia”
Beh, ultimamente ne abbiamo parecchi forti…
“Sì, infatti ci siamo domandati che tipo di pasta stiano mangiando gli italiani!” (ride, ndr)
A tal proposito, qual è la sua opinione del tennis moderno?
“Il gioco è diventato estremamente fisico, il serve and volley è sparito perché è impossibile riuscire a chiudere una prima volée con queste risposte così potenti. Tuttavia, ho notato che un pò alla volta i giocatori stanno cercando nuovi modi per approcciare la rete e rendersi aggressivi. Il dropshot invece sta vivendo un grande comeback”.
Cosa pensa della nuova generazione di giocatori che prenderà il posto dei Big 3?
“Ci sarà un cambio di guardia graduale, che vedrà protagonisti anche tanti italiani. Abbiamo dei giovani giocatori brillanti. Credo che il quinto set tra Thiem e Zverev agli US Open sia stato eccezionale, ho adorato il modo in cui entrambi hanno combattuto contro sé stessi oltre che con l’avversario. Malgrado le difficoltà, entrambi l’hanno gestita con maturità, mettendo la propria amicizia al di sopra della competizione. Raramente si vedono Djokovic, Nadal e Federer in situazioni simili. Loro tre hanno saputo stimolarsi a vicenda, un po’ come faceva Bollettieri con gli allievi: li metteva sullo stesso campo e ognuno dava il meglio di sé per attirare la sua attenzione. Quando Roger, Rafa e Novak competono si spingono e rendono migliori a vicenda, in questo modo il livello sale inevitabilmente. Lo stesso dovrebbe avvenire in futuro con Thiem, Zverev, Sinner…”.
Però i giovani di oggi sono praticamente tagliati fuori da quel piccolo cerchio creato da Federer, Nadal e Djokovic.
“Qui entra in ballo il fattore mentale. I ragazzi hanno un timore reverenziale nei loro riguardi, sanno quanti Slam hanno vinto e quanto sono forti. Entrano in campo già sconfitti psicologicamente”.
Uno dei momenti più chiacchierati della sua carriera riguarda l’outfit sfoggiato a Wimbledon nel 1985. Violò il dress code del torneo per aver indossato una tuta bianca molto aderente. Cosa pensò quando le venne chiesto di cambiarsi?
“Quando il giudice di sedia mi vide con quella tuta credevo stesse per avere un infarto. Ero così nervosa che sbagliai la prima risposta e credevo stessi per avere un infarto anche io. Alla fine del secondo set il match venne sospeso per oscurità e mi scortarono nell’ufficio dell’arbitro. Lì mi chiesero di non indossare più quella tuta e il giorno dopo scesi in campo con altri vestiti”.
Nel 2018 Serena Williams indossò una “catsuit” molto simile alla sua, durante il Roland Garros. Anche in quell’occasione l’uso della tuta durante i match ufficiali venne vietato. Le definirebbe decisioni sessiste?
“Al 100%, non vogliono che le donne indossino abiti del genere ed hanno il potere di impedirlo. Ma chi sono queste persone per dire a una donna cosa indossare quando va a lavorare? Serena inoltre aveva delle ragioni mediche per indossarla, è stata una decisione ingiusta e sessista”.
A che punto siamo oggi quando si parla di sessismo in Tour?
“È ancora un mondo di uomini, sfortunatamente, anche se molte cose sono cambiate. Dobbiamo ringraziare Billie Jean King per tutto ciò che ha fatto ed il grande input che ha dato allo sport in generale, oltre che al tennis femminile. Gli uomini giocano 3 su 5, sono sul campo più a lungo, quindi da un lato capisco la loro posizione… Per quanto riguarda gli outfit, ognuno dovrebbe essere libero di esprimere la propria personalità attraverso il vestiario, soprattutto se ci sono indicazioni mediche”.
Sarebbe giusta la parità di montepremi nonostante il tour femminile attiri una audience minore rispetto a quello maschile?
“Decisamente. Le ragazze viaggiano, competono e si allenano così come gli uomini. Adesso il tennis è diventato un grande spettacolo, l’introduzione del coaching ne è la prova, anche se non ne sono una grande fan. Ci sono migliaia di tifosi che preferirebbero assistere ad un match femminile piuttosto che a uno maschile.”
Cosa ne pensa dell’idea di far convergere i Tour?
“Su questo ho dei dubbi, non ne sono sicura”.
E dell’operazione di marketing legata alla Next Gen? Farebbe bene anche alla WTA?
“Promuovere storie di giovani talenti che vengono da tutto il mondo potrebbe fare soltanto del bene al tennis femminile. I ragazzi stanno attirando tantissimi giovani verso questo sport. Poco prima del coronavirus, al Beverly Hills Tennis Club abbiamo ospitato giocatori che dovevano prepararsi per Indian Wells, come Djokovic, Querrey e Wawrinka: gli occhi dei bambini si sono illuminati come alberi di Natale. In occasioni come questa si trova l’ispirazione per alzare il livello ed è proprio ciò che sapeva fare meglio Nick”.