Segnare 70 punti in una partita Nba è un’impresa che solo cinque giocatori nella storia erano riusciti a compiere prima di Devin Booker: Wilt Chamberlain, Kobe Bryant, David Thompson, Elgin Baylor, David Robinson. Non Michael Jordan, che si fermò a 69, non Pete Maravich, o Rick Barry, o Jerry West. Tra i contemporanei ce l’ha fatta solo Kobe: l’ultimo ad andarci abbastanza vicino è stato Carmelo Anthony, nel 2014, quando ne ha realizzati 62 contro Charlotte. Il preambolo serve solo per misurare la prestazione, ma quello che ha fatto Devin Booker dei Phoenix contro Boston non ha eguali. Devin, alto 1.98, ha compiuto 20 anni lo scorso ottobre ed è solo alla sua seconda stagione tra i professionisti: nessuno ha mai realizzato una prodezza simile alla sua età. Booker è, semplicemente, fortissimo: ha fondamentali eccellenti, un senso del far canestro davvero mostruoso e non è propriamente timido. Essere finito in una delle squadre più deboli della lega in piena ricostruzione gli ha dato la possibilità di giocare tanto, subito, senza grande angoscia di sbagliare. Non sto salendo sul carro del vincitore se dico che sto seguendo Devin con passione e ho visto tante sue partite. Perché mi emoziona sempre quando dei giovani si affermano ma, soprattutto, ho scritto tanto del padre Melvin che ho potuto apprezzare quando ha giocato in Italia per 5 anni, nelle ultime stagioni veramente felici di Pesaro e a Milano. E’ c’è una preveggenza nel fatto che diede a Devin come secondo nome Armani: per uno che giocava nell’Olimpia prima che il grande stilista la sponsorizzasse o la acquistasse, non è male. Molto più piccolo del figlio, Melvin era un playmaker vero ma moderno, cioè capace di essere un leader e ispiratore per i compagni e contemporaneamente segnare, nella sua carriera italiana, 16 punti di media a partita. L’ultima volta da noi è stata nel 2008, quando Milano lo richiamò ormai anziano per sistemare una stagione storta in cui Attilio Caja, che lo aveva già allenato a Pesaro, subentrò a campionato iniziato. Ma a differenza di Kobe e altri giocatori figli di americani che hanno giocato nel nostro Paese, Devin bambino non era una presenza sui campi della serie A: mentre il padre si guadagnava da vivere all’estero, è rimasto negli Usa e ha potuto stare con lui solo nei tre mesi estivi. Quando dal Michigan, dove viveva in un sobborgo quasi esclusivamente di bianchi, tornava nel Mississippi, nella casa dove era nato il padre, in una delle regioni più povere degli Stati Uniti a predominanza nera. Il tiro perfetto di Devin nasce dal lavoro col padre sui campetti. Melvin però capì che non era più abbastanza: nel 2008 avrebbe avuto un altro anno di contratto a Milano, ma decise di non tornare in Italia per stare finalmente con il figlio. Lo convinse a lasciare il Michigan, la madre e gli amici, per seguirlo stabilmente nel Mississippi. Assunse il ruolo di vice allenatore del liceo locale. La leggenda del ragazzino dei 70 punti in una partita Nba, è partita da li.
Devin è uno dei motivi per il quale mi sono divertito particolarmente quest’anno a seguire la regular season della Nba. Perché c’è un numero impressionante di giovani formidabili. Chiariamo subito: per me, giovane è uno dai 22 anni in giù, diciamo nati nel 1995 e seguenti. Da noi siamo capaci di considerare ancora come giovani Alessandro Gentile del 1992 o Amedeo Della Valle, del 1993: a 23-24 anni, come dimostra la Nba, si è atleti finiti. Oltre a Devin Booker, che viaggia a 21,6 punti di media, più dei suoi anni, superano quota 20 anche Jabari Parker di Milwaukee, Andre Wiggins e il pazzesco Karl-Anthony Towns di Minnesota. Nikola Jokic, di Denver, Kristaps Porzingis di New York, Zach Lavine, ora infortunato, sempre di Minnesota stanno leggermente sotto come realizzazioni ma sono già star. Cifre a parte, c’è tanto materiale fantastico: Jamal Murray di Denver, che è nato nel 1997, Jahil Okafor di Philadelphia, Aaron Gordon di Orlando, D’Angelo Russell dei Lakers e tanti altri… Senza contare che abbiamo escluso giocatori ormai “vecchi”, nati nel ’94, come Giannis Antetokounmpo di Milwaukee e Joel Embid o Dario Saric di Philadelphia… Il futuro sorride alla Nba che ha trovato il modo di sviluppare, anche tecnicamente, i talenti più giovani usciti dai college ormai solo dopo una stagione, cosa che una decina di anni fa sembrava non fosse in grado di fare.
Per deformazione professionale, non riesco mai a non paragonare ciò che succede nella Nba con la nostra realtà. E, spesso, non capisco. A rigor di logica, se nel campionato più forte, ricco e competitivo del mondo, quest’anno sono 22 gli under 22 che restano in campo oltre 20’ a partita, perché in Italia, dove dovremmo essere alla base della piramide di eccellenza cestistica internazionale, ce ne solo tre, stranieri compresi: Lee Moore di Brescia, Diego Flaccadori di Trento e Vojislav Stojanovic di Capo d’Orlando? E come mai gli unici under 22 che possono dire di “giocare”, cioè restare in campo almeno 10’ di media in serie A, sono solo sette? E’ un problema antico che evidentemente è rimasto irrisolto: l’età critica per i nostri giocatori è tra i 20 e i 23 anni, dove dovrebbero esplodere e invece non giocano abbastanza. Se ne parla da anni… E la A-2, il palcoscenico creato apposta per questo, non va meglio: solo sei sono utilizzati più di 20’ tra i quali i davvero giovani Leonardo Candi e Davide Moretti. Evidentemente non basta perché il basket italiano possa avere un futuro migliore.
Stavolta però non siamo tra i Pigs d’Europa come nell’economia: anche l’Eurolega ha lo stesso problema. Ovvio, molti talenti sono stati rubati dalla Nba e poi c’è Luka Doncic, del Real Madrid, che ha appena compiuto 19 anni ed è una stella. Ma tra le 16 migliori squadre d’Europa sono solo 7 gli under 22 che possono dire di giocare davvero, ammesso che gli 11’ di media concessi a Simone Fontecchio, prima che si facesse male, siano sufficienti per fare della vera esperienza. L’Europa deve cominciare a chiedersi perché perfino gli ultra-professionisti della Nba trovino spazio per creare le stelle del futuro e noi, che agiamo ad un livello molto più basso, no. E’ questione di vita o di morte per il nostro basket. Certo talenti come Devin Booker sono unici. Se ne avete occasione, non perdetevelo. Una ragione di più, se eravate estimatori e tifosi del padre.
Luca Chiabotti