Vyacheslav Ivanon, per esempio. Quel canottiere sovietico che a 18 anni conquistò la medaglia nel singolo d’oro alle Olimpiadi di Melbourne nel 1956, lanciò la medaglia in aria in segno di giubilo, la medaglia non atterrò ma affondò nel Lago Wendouree, sede delle gare, e nonostante le ricerche di Ivanon e dei suoi compagni, non fu mai più trovata.
Kevin Magee, per esempio. Quell’australiano che nel Gp di Laguna Seca di motociclismo, nel 1989, si classificò quarto nella 500 dopo mille acrobazie, e poi, nel giro finale, mentre ringraziava e salutava la folla, perse l’equilibrio, cadde e si fratturò una gamba.
Anders Ahlgren e Ivar Bohling, per esempio. Quei due lottatori, il primo svedese, il secondo finlandese, finalisti nella categoria mediomassimi, alle Olimpiadi Stoccolma nel 1912. Dopo nove ore di combattimento, i due atleti si equivalevano a tal punto da rendere impossibile assegnare la vittoria a uno dei due. E allora i giudici li premiarono a pari merito. Non con due ori, ma con due argenti.
In una bancarella dei libri di seconda mano, ho trovato “Great Sporting Failures” (CollinsWillow), un florilegio di casi incredibili ma veri per sfortuna, per destino, per coincidenze, collezionati da Geoff Tibballs. Come quel primo test di cricket fra Sri Lanka-Young England del 1987 interrotto al Colombo Cricket Club per l’invasione di un iguana, come quel campionato sudafricano di atletica sulle 10 miglia nel 1933 in cui faceva così caldo che nessuno dei partenti arrivò al traguardo, come quel pattinatore italiano – Guido Caroli – che da tedoforo alle Olimpiadi invernali di Cortina nel 1956 cadde mentre portava la fiaccola, come quei due sprinter statunitensi – Eddie Hart e Rey Robinson – eliminati nelle batterie delle Olimpiadi di Monaco nel 1972 perché il loro allenatore aveva sbagliato a leggere l’orario delle gare…
La fortuna è cieca, come sosteneva Freak Antoni, ma la sfiga ci vede benissimo. E lo sport è una miniera di casi paradossali, un giacimento di circostanze imbarazzanti, un’enciclopedia di risultati balordi, una cassaforte di infortuni imprevisti. Come quello che colpì il rugbista francese Jean-Pierre Salut: mentre faceva le scale che separavano lo spogliatoio dal campo – si giocava Francia-Scozia a Parigi, nel 1969 – inciampò, cadde e si ruppe la caviglia. Qualcosa di simile si abbatté sul giocatore di cricket Nigel Briers, capitano del Leicestershire: prima del match contro il Lancashire, infilando la mano nei pantaloni si procurò una distorsione al pollice. E qualcosa di peggio martirizzò Manolo Santana nell’incontro di Coppa Davis fra Spagna e Cecoslovacchia: opposto a Thomas Koch, Santana perse il primo set 7-5, poi s’infortunò alla spalla, ma rimase stoicamente in campo, senza poter eseguire smash e servendo dal basso, Koch non ebbe pietà e gli rifilò un doppio 6-1.
Alla maglia rosa corrisponde la maglia nera, così se esiste un Libro Guinness dei primati, potrebbe esistere anche il suo contrario, basta capovolgere la classifica per conoscere non più vittorie eclatanti ma disfatte memorabili. Il 2-86 dell’Afghanistan contro l’Unione Sovietica nel 1981 a pallamano, il triplice 0-9 subito dall’olandese Hugolein van Hoorn contro la britannica Lucy Souter ai British Open Under 21 nel 1988, in sette minuti e mezzo, l’1-63 con cui lo Swaziland fu sushizzato dal Giappone ai Mondiali di bocce nel 1980.
Certe prodezze al contrario sono così drammatiche da diventare letterarie. Come quel Kukris-Panaga, cioè The Flying Kukris Rugby Football Club, di Seria, Brunei, che sulla sua pagina Facebook si autocertifica come “probabilmente la più grande squadra dell’Esercito inglese di rugby a sette e a dieci nell’Asia del sud-est”; e il Panaga Crocs Rugby Union Football Club, fra Seria e Kuala Belait, Brunei, con squadre di rugby a sette, dieci e quindici, formate da locali, militari e dipendenti della compagnia petrolifera Shell. Kukris-Panaga era una partita sentita e combattuta, anche se – aggiungerebbero quelli di Kukris – probabilmente non di altissimo livello. Dick Dover era un avanti di Kukris: quando intuì la possibilità di ripartire da una mischia, con il pallone blindato sotto il braccio, scattò e andò. E andò. E andò. Una memorabile corsa di una settantina di metri. Che si concluse trionfalmente in mezzo ai pali. Ma quando si volse verso i compagni, Dover si accorse che c’era qualcosa di strano. E capì che quel qualcosa di strano l’aveva fatto proprio lui: correndo sì in mezzo ai pali, ma quelli della propria squadra, disorientato dalla mischia che si era girata.
Il pugilato, poi, è un ring di disavventure: quel ghanese, Clement Quartey, che alla dichiarazione del verdetto per l’oro dei pesi welter jr ai Giochi del Commonwealth 1962 era così sorpreso di avere vinto che crollò al tappeto, svenuto; quell’irlandese, Jack Doyle, che si allungò per un colpo, mancò l’avversario, Eddie Thompson, sullo slancio finì oltre le corde, precipitò giù dal ring e andò k.o.; quell’africano della Sierra Leone, nonché rugbista nei Blues di Oxford, John Coker, che ai Giochi del Commonwealth 1966 venne squalificato prima dell’incontro perché non era riuscito a trovare un paio di guantoni adatti alle sue mani, gigantesche; quel match, Jack Dempsey-Johnny Reagan, il 13 dicembre 1887, organizzato a New York, anzi, Long Island, anzi, sulla spiaggia, che a metà venne interrotto per colpa dell’alta marea che invase il ring e riprese più tardi, a qualche chilometro di distanza, e in un luogo più asciutto; e quell’arbitro, Ruby Goldstein, che a forza di dividere i due sfidanti al titolo mondiale dei mediomassimi nel giugno 1952, Ray “Sugar” Robinson e Joey Maxim, alla fine del decimo round cedette esausto e si autodichiarò fuori combattimento, prima del limite.
Il massimo tentò di combinarlo la squadra tunisina di pentathlon moderno alle Olimpiadi di Roma nel 1960. Prima con uno dei suoi atleti che, nel nuoto, stava affogando. Poi con un altro che, nel tiro con la pistola, sfiorò i giudici. Infine nella scherma: l’allenatore fingeva di ruotare tutti gli atleti sulla pedana, ma a combattere era uno solo, l’unico a saper usare il fioretto, sperando di farla franca nascosto dalla maschera. Ma fu scoperto.
Marco Pastonesi