Non è mai successo, nella storia delle Finali Nba, che la stessa sfida si ripetesse per tre anni consecutivi, come invece accadrà, a partire dal primo giugno, tra Cleveland Cavaliers e Golden State Warriors. Una finale, considerato il talento in campo, accresciuto dal potenziamento clamoroso della panchina dei campioni in carica e dall’arrivo di Kevin Durant sulla Baia, che promette uno spettacolo ancora migliore di quelli offerti nel 2015, vittoria dei Warriors di Steph Curry per 4-2, e nel 2016, successo dei Cavs di LeBron James per 4-3, rimontando dall’1-3. Sarà la settima finale consecutiva di LeBron, tra Miami e Cleveland, con tre vittorie, dato che dà solide motivazioni a chi ritiene che “il Prescelto” sia il miglior giocatore di tutti i tempi. Entra nella sfida per il titolo contro i Warriors come capocannoniere assoluto della storia dei playoff dopo aver superato Michael Jordan con una tripla alla fine del terzo quarto di gara-5 contro i Celtics, il momento più prezioso di una prestazione da 35 punti, 8 rimbalzi e 8 assist. “Non devo segnare per avere un impatto sulla partita – ha detto poi LeBron -, questa è stata la mia mentalità da quando ho iniziato a giocare. La cosa più importante per me stando qui oggi a celebrare il record conquistato è che ci sono riuscito semplicemente essendo me stesso”.
Non avremmo potuto chiedere una finale migliore, con tanti giocatori straordinari all’apice fisico e mentale della loro carriera. Del resto è stata la più gettonata dai pronostici dall’inizio della stagione. Ma, onestamente, penso che il cuore di molte persone abbia battuto più sonoramente per chi è stato eliminato in semifinale, prima di essere spazzato via per motivi che non hanno nulla a che fare con la qualità del gioco espresso. Come si fa a non ricordare che, prima dell’infortunio di Kawhi Leonard (provocato da un avversario, Pachulia), e già senza Tony Parker, gli Spurs stessero dominando in casa dei Warriors gara-2 giocando un basket meraviglioso e che andare sull’1-1 prima delle due gara casalinghe all’AT&T Center avrebbe potuto cambiare i destini della serie? E le emozioni più grandi finora non le aveva fatte vivere Isaiah Thomas, il piccolo grande uomo dei Celtics, finito anche lui k.o. dopo due sole sfide coi campioni in carica? Perfino LeBron ha dichiarato quanto sia stato fantastico il lavoro di coach Brad Stevens, soprattutto quando ha dovuto fare a meno della sua stella (mettiamola così, senza offendere nessuno: come qualità dell’allenatore, Boston batte Cleveland di qualche decina di lunghezze…). Capitolo chiuso. Resta la finale tra le squadre più forti, delle stelle più esaltanti: cosa possiamo chiedere di più?
Ma lasciatemi dire un’ultima cosa. Personalmente ho avuto un sussulto quando ho visto Manu Ginobili partire in quintetto in gara-4 contro i Warriors. E’ stata l’unica volta nelle ultime tre stagioni, in una carriera per due terzi esatti vissuta partendo dalla panchina. L’omaggio fatto da Gregg Popovich al suo giocatore è stato assolutamente esplicito: avrebbe potuto essere l’ultima partita davanti al pubblico di san Antonio prima del ritiro. Manu si è preso qualche settimana di tempo per decidere del proprio futuro che a 40 anni gli offre due alternative, per lui stessa ammissione, ugualmente meravigliose: continuare a giocare ancora un anno, dopo aver dimostrato anche in questi playoff di essere perfettamente in grado fisicamente di farlo, o dedicarsi a tempo pieno alla sua famiglia. ESPN ieri si chiedeva se fosse un giocatore da Hall of Fame, dubbio che può venire solo a un americano: basterebbe quello che ha fatto con l’Argentina per portarlo di peso a Springfield. Poi ci sono quattro titoli Nba. Ovviamente, Popovich non ha avuto alcun tentennamento in merito: avere un futuro Hall of Famer disposto a partire dalla panchina, è stato, secondo lui, il segreto dei trionfi decennali degli Spurs.
Noi italiani abbiamo avuto la fortuna di veder sbocciare il talento di Manu sui nostri campi e di poterlo conoscere prima che diventasse una stella assoluta, dandoci poi il piacere enorme di scoprire che i soldi e il successo non lo hanno cambiato di una virgola. Durante gara-4 non ho potuto non pensare a quando giocava a Reggio Calabria e lo si trovava, con tutta la comunità argentina della Viola, a cena al porto. Da allora, mille momenti: dall’assist involontario di Sasha Danilovic, che decise di ritirarsi a soli 30 anni, lasciandogli una pista sgombra per decollare verso lo scudetto e il titolo continentale della Virtus Bologna nel 2001, fino all’ultimo anello conquistato nel 2014. Mi piace ricordare due momenti incredibili: il primo, a Indianapolis, nello storico 4 settembre del 2002, quando al Mondiale l’Argentina inflisse agli Stati Uniti la prima sconfitta da quando le porte della loro nazionale erano state aperte ai giocatori Nba. Un’emozione incredibile, un po’ perché quella squadra era formata da molti “italiani” (Hugo Sconochini fu quello che restò più a lungo in campo, 32’ con 8 assist) ma anche perché in questi ragazzi capaci di travolgere Paul Pierce e compagni rappresentavano la rivolta del mondo di noi comuni mortali contro uno strapotere presuntuoso e spesso arrogante rispetto al basket che si giocava al di fuori deli Usa (le cose sarebbero cambiate solo qualche anno più tardi, con l’arrivo di coach Krzyzewski) che culminò con la conquista dell’oro olimpico argentino nel 2004. Il secondo racconta che neppure Gregg Popovich, all’inizio, credeva del tutto in Manu. Proprio al Mondiale, Ginobili si era infortunato alla caviglia alla vigilia della sua prima stagione Nba, a San Antonio. Così il suo impatto col mondo dei professionisti era stato complicato e rallentato. Era novembre, ero lì la sera di una partita di inizio stagione contro i Memphis Grizzlies. Ai tempi, il gioco degli Spurs era piuttosto monotono, palla a Duncan e pedalare. Quando entrò Manu, è come se le porte dell’arena fossero state spalancate all’improvviso facendo entrare dell’aria fresca e frizzante: San Antonio decollò, Ginobili tornò in panchina e si rivide solo nella ripresa, a gara già vinta. Segnò 9 punti, sbagliando 6 tiri liberi su 7, cosa che fece pensare a Popovich che Manu se la stesse facendo sotto, cosa che gli disse in un timeout. Non aveva ancora capito granché del suo giocatore. A fine gara, nessuno, né il suo allenatore, né la stampa presente, colse la prestazione di Ginobili. Eccetto Hubie Brown, coach dei Grizzlies, ancor oggi, a 84 anni, stimato commentatore tivù. Disse quello che noi italiani sapevamo già, che quella sera aveva visto qualcosa che avrebbe potuto cambiare la vita degli Spurs. Era Manu. Che quell’anno avrebbe poi vinto il titolo. Ammetto che mi avrebbe appassionato una finale diversa, con Spurs o Celtics, o tutti e due, per le storie che hanno saputo raccontarci. Ma oggi non c’è nulla di più bello su un campo di basket di Cavs-Warriors. Bene così.
Luca Chiabotti