Li chiamano i corridori del cielo. Sulle creste delle nostre Alpi, delle Prealpi, dell’Appennino, giù sino alla Sicilia, si recita uno spartito che è fatica, resistenza, forza mentale, sempre al limite. Sono migliaia che partono soltanto per arrivare, senza un premio se non la maglietta di “Finisher” che ha il sapore di una medaglia, l’orgoglio di un capitolo vinto contro se stessi.
Ormai ogni week-end – e non solo- spuntano come funghi le sky-race, i trail, gli ultra trail, tutte manifestazioni che vedono impegnati giovanissimi e anche ultrasessantenni, sui sentieri dove ci sia salita ripida e discesa spericolata, ma soprattutto tanto cielo davanti agli occhi. Vi basterebbe capitare nell’ultima settimana di agosto e la prima di settembre in uno scenario immacolato come quello delle valli del Monte Bianco, Valle d’Aosta: più di diecimila persone in quei giorni si sfidano, salgono al rifugio Bertone, precipitano sulla Val Ferret, s’immergono nella Val Veny, si buttano verso Chamonix: 40, 70, 90, 100, 120 chilometri. Per tutti i gusti, per tutte le forze, per tutte le età.
Prima c’erano soltanto i maratoneti, poi sono spuntati questi corridori della montagna, che hanno scoperto quanto sia bello misurarsi con la fatica in un ambiente così bello, in un connubio che vale come premio. A ogni partenza non c’è mai tensione, i corridori si affollano felici, cantando, sorridendo con i loro zaini colmi di lampade frontali, barrette energetiche, riserve d’acqua, coperte contro il freddo: un’avventura che è una scoperta, perché dopo lo start diventi solo con i tuoi problemi alle gambe, la testa che non risponde, lo sconforto, l’adrenalina, la gioia, la paura, il dolore, la delusione. E il sonno che per gli ultra trail è una dura bestia da sconfiggere, più dei crampi, dei piedi che si piagano, delle ginocchia che si sbucciano in cadute rovinose sotto la luce delle stelle.
Il Tor des Geants, che ogni anno si disputa in Val d’Aosta (prima edizione nel 2010), è il crogiuolo della fatica e dei sentimenti di questi atleti estremi. Sono 330 i chilometri da percorrere in un tempo limite di 150 ore, ma che i vincitori riescono a dimezzare affrontando dislivelli di 22 mila metri: il cielo a un passo. Anche qui ci sono i campioni: gli italiani Collè e Bosatelli (vincitori di una edizione ciascuno), gli spagnoli (Perez o Karrera, Dominguez, questo il dominatore dell’ultima edizione con il record di percorrenza in 67 ore e 50 minuti), i francesi (Brochard), ma sono soltanto l’estremo positivo della corsa. Tutto il resto è un lungo serpentone di uomini e donne (tantissime) che sfidano la loro resistenza come unico scopo di arrivare al traguardo. Non c’è altro, se non l’abbraccio di un pubblico che è sempre emozionato per tanto coraggio sportivo.
Se all’università dell’Ultra trail le prove sono sempre al confine del limite, in altre la normalità è rappresentata da uomini e donne che sfidano la loro resistenza su distanze più corte e con dislivelli meno elevati (che comunque superano sempre i 2000-4000 metri). Anche questo è un mondo gioioso che sarebbe piaciuto allo spirito di De Coubertin, dove i corridori si aspettano, solidarizzano, si aiutano, si confortano, perché tutti hanno un sentiero da percorrere (come nella vita) e nessuno si vuole arrendere. Mai. Anche a costo di arrivare barcollanti sul traguardo per poi prendere in braccio i figli per gli ultimi metri, che sono come un trionfo alle Olimpiadi. Proprio la fatica e la condivisione di un’avventura danno la misura di quanto questo sport sia più vicino che mai alla purezza. Non ci sono mezze misure, calcoli, strategie: gambe in spalla e si va. E a ogni prova, a ogni trail la gente arriva sempre più numerosa, le iscrizioni aumentano a tal punto che, per sicurezza, diventa necessario il numero chiuso. Forse sarà una moda, ma è bellissima perché è una moda per se stessi, non per gli altri.
Sergio Gavardi