La clamorosa esclusione di Marcel Jacobs dai dieci candidati al titolo di Atleta dell’anno riporta alla ribalta l’Olimpiade di Tokyo e ridà luce sia alle imprese, sia ai dubbi sul reale valore di certe prestazioni. Arriva perciò il momento di concludere l’analisi sui Giochi giapponesi con l’atletica leggera in questo articolo e con la ginnastica nel prossimo.
A Tokyo l’Italia è la grande sorpresa, con 5 ori, seconda dietro gli Stati Uniti con 7 e davanti a tutte le altre nazioni, un risultato incredibile, che però ha una sua logica nel quadro generale del movimento globale dell’atletica, con gli ori distribuiti fra 16 nazioni, con dispersioni causate da tanti motivi, di merito e di colpa. Se è vero che l’atletica è in continua espansione e che nuovi campioni arrivano da nuove realtà, è anche vero che gli spazi si creano anche a causa delle squalifiche di atleti delle nazioni fino a poco tempo fa dominanti. C’è il caso della Russia, sì, ma anche degli Usa, col caso eclatante del velocista Coleman e dei suoi “Centri doping” che accolgono atleti di tante nazioni, che diventano i nuovi sospettati. Così, non farò una panoramica dell’atletica a Tokyo, preferisco puntare solo su alcuni punti che ritengo possano essere basilari per il futuro.
JACOBS, CHI ERA COSTUI?
La reazione del mondo dell’atletica all’oro di Jacobs nei 100 metri, doppiato da quello nella staffetta 4×100, è simile a quella di Don Abbondio, nei “Promessi sposi”, che leggendo il nome di Carneade, filosofo greco poco conosciuto del secondo secolo prima di Cristo, si chiede chi sia: “Carneade, chi era costui?”. Da questo stupore nasce, di conseguenza, il sospetto sulla sua vittoria, sul suo 9”80 che gli vale l’oro, record europeo, terza migliore prestazione in una finale olimpica dopo due di Bolt (2008, 2012), sui suoi fulminei progressi. E magari anche questa è una spiegazione sotterranea della mancata candidatura al titolo di Atleta dell’anno. Tanto per chiarire, fra i dieci nominati ce ne sono almeno tre (lo svedese Daniel Stahl, disco; il greco Miltiadis Tentoglou, salto in lungo; il canadese Damian Warner, decathlon) la cui candidatura, raffrontata a Jacobs, è semplicemente ridicola, e qualche altro (il norvegese Jakob Ingebrigtsen, 1500; il keniano Eliud Kipchoge, maratona; l’ugandese Joshua Cheptegei, 5.000 e 10.000) che ha sì risultati tecnicamente di alto valore, ma sicuramente non superiori a quelli di Jacobs. E, paradossalmente, la vittoria sui 100 metri non è tecnicamente il suo risultato di maggior rilievo, perché l’oro nella staffetta 4×100 va oltre, è da fantascienza, visto che l’Italia, pur considerata fra le più forti nazioni, ha avversari obbiettivamente superiori e può sperare in un podio se tutto va bene. E la frazione di Jacobs, quella in cui l’atleta percorre più metri, è quella che incide di più per la vittoria, senza assolutamente sminuire il valore della supervolata finale di Tortu e il contributo fuori del normale da parte di Patta e Desalu.
Insomma, ignorare Jacobs è una barzelletta. C’è una spiegazione per tutto questo? Ne è stata prospettata una “silenziosa”, legata ai sospetti di doping lanciati dagli inglesi soprattutto, ma anche da tante altre nazioni. I misteriosi (perché sono tenuti nascosti dalla Iaaf) giudici potrebbero aver voluto punire Jacobs secondo una loro personale visione della giustizia. Lasciando da parte interpretazioni da tifosi, ci sono due considerazioni da fare in proposito. A favore di Jacobs: i suoi miglioramenti non sono stati improvvisi e ristretti in tempi molto rapidi, ma diluiti negli ultimi due anni, anche se sono stati meno visibili a causa della ridotta attività internazionale per la pandemia da Covid, ma era chiaro a tutti che Jacobs stava crescendo fino ad arrivare all’oro europeo indoor nei 60, perché è in quel momento che si è capito come la sua potenzialità sui 100 fosse arrivata a tempi sui 9”90 e anche meno.
Contro Jacobs: le frequentazioni con persone che potrebbero sollevare dubbi di doping sono un punto su cui l’azzurro deve fare una riflessione, è vero che un semplice contatto non basta per farlo diventare imputato e che le persone sospette che gli capita di incontrare non sono a loro volta da condannare senza prove, ma in questo campo l’attenzione non è mai abbastanza. Tutte le altre presunte spiegazioni sulla mancata candidatura, come quella di non aver gareggiato dopo le Olimpiadi e che l’Atleta dell’anno è chi si impone non per una sola impresa, sono scuse puerili: l’Olimpiade è la gara più importante non solo dell’anno, ma di 4 anni, in questo caso di 5 anni, non scherziamo, tutto il resto della stagione scompare al confronto.
Meno clamorosa è l’esclusione di Gianmarco Tamberi, senza per questo sminuire il valore del suo oro e della successiva vittoria nella Diamond League. Non è nominato nemmeno il qatarrino Barshim, che ha vinto l’oro olimpico insieme a lui, e comunque è più logico che chi ha vinto una sola gara e senza record o senza prestazione vicina al record possa essere escluso dalle candidature. Poi, ci sarebbe anche potuto stare Tamberi fra i nominati, ma la sua situazione è meno scandalosa rispetto a Jacobs.
TORTU, L’ORA DI RADDOPPIARE
Tokyo è stato anche il momento di svolta per Filippo Tortu, che pare si sia finalmente convinto di dover puntare tutto sui 200. La scelta di privilegiare i 100 è stata presentata da lui, da suo padre e dai tecnici federali anche come una via obbligata a causa di qualche infortunio e del rischio di farsi male sui 200. Così, per ben due anni, dal 2019 in poi, Tortu non ha più corso i 200. Ma un rischio infortunio che dura due anni non può essere credibile, potè esserlo per Andrew Howe che per un periodo non corse i 200 a causa di un problema fisico al ginocchio che si acuiva nello sforzo in curva, non per Tortu. Più credibile una inspiegabile antipatia per i 200 e una preferenza per i 100, come è sempre risaltato dalle dichiarazioni di Tortu, che rinviava le prove sui 200 dicendo di non essere pronto e di sperare in ottimi risultati dai 100. Il miracoloso ingresso in finale nei 100 ai Mondiali 2019 a Doha, per pochi millesimi, lo indusse a credere di essere sulla strada giusta e a Federazione e molti giornalisti a dargli ragione, ma la realtà dei risultati e dei tempi lo smentiva sin da allora. Per averne un’idea credo sia opportuno rileggere l’articolo che scrissi due anni fa, proprio dopo i Mondiali di Doha, al link qui sotto:
Dopo Tokyo, ecco un aggiornamento su quali risultati si potrebbero ottenere alle Olimpiadi con i tempi già ottenuti da Tortu sui 100 e quelli raggiungibili sui 200, ancor più realistici dopo il 20”11 da lui ottenuto nel finale di questa stagione senza una preparazione specifica.
Fino a Rio 2016 inclusa sui 100:
“Stessa procedura per le Olimpiadi, prendendo quelle dal 1980 in poi, stessa “era” dei Mondiali, che cominciarono nel 1983. Sui 100, col 9”99, si otterrebbe il bronzo in 5 delle 10 edizioni considerate, l’argento in 4, l’oro in 2”.
Considerando anche Tokyo, il 9”99 servirebbe solo al settimo posto, nemmeno certo al 100% considerando che un atleta è stato squalificato e un altro non ha finito la gara.
Fino a Rio 2016 inclusa sui 200:
“E passiamo ai 200. Con 19”80 si prenderebbe il bronzo in TUTTE e 10 le edizioni, l’argento in 9, l’oro in 4. Con 19”85 il bronzo in 8, l’argento in 7, l’oro in 3. Con 19”90 il bronzo in 8, l’argento in 7, l’oro in 3. Con 19”95 il bronzo in 8, l’argento in 7, l’oro in 3. Con 20” il bronzo in 7, l’argento in 5, l’oro in 3. E qui siamo al doppio delle speranze di medaglia a favore dei 200 metri”.
La finale di Tokyo, in questo caso, fa eccezione perché è stata corsa con rendimento generale altissimo, tant’è che con 19”80 si sarebbe arrivati quarti, con 19”95 quinti, con 20 netti sesti, ma il significato generale non cambia, a tutto vantaggio dei 200.
Una ulteriore conferma, paradossalmente, arriva proprio dalla grande cavalcata di Tortu nell’ultima frazione della staffetta 4×100, con la rimonta sulla Gran Bretagna. Si tratta di 100 metri, anzi qualcuno in meno perché l’ultima frazione è la più corta della staffetta, ma la differenza fondamentale è che è una frazione lanciata, lì dove Tortu si esprime al massimo, tant’è che lui fa intravedere nei 200 le stesse qualità dei più grandi campioni della specialità: il finale travolgente. E in questo, altro paradosso personale, è che ha caratteristiche del tutto diverse da quello che lui considera il suo idolo, Livio Berruti (gran curva, corsa in testa e poi strenua resistenza nel finale), e che lo accomunano invece a Pietro Mennea. E anche su quei 100 metri scarsi dell’ultima frazione quelle qualità gli hanno permesso di volare letteralmente e conquistare l’oro. Ovviamente, il lavoro sui 100 resta imprescindibile perché è la base per gran risultati sulla doppia distanza, ma è sempre più evidente e definitivo che Tortu può realizzare mirabili imprese nei 200, non c’è più tempo da perdere, altrimenti un grande talento resterà incompiuto per sempre.
PISTA E SCARPETTE
L’atletica a Tokyo si è distinta anche per una serie di prestazioni incredibili in pista, ottenute non solo dai vincitori, ma anche da molti altri atleti. E’ il caso dei 400 ostacoli uomini, con il norvegese Karsten Warholm che in finale ha stabilito il nuovo primato con 45’’94, contro il suo stesso 46”70 ottenuto l’1 luglio a Oslo. Ma è sensazionale anche lo statunitense Rai Benjamin, argento in 46’’17, anche lui sotto il precedente record, e il brasiliano Alison dos Santos, bronzo, corre in 46’’72, solo 2 centesimi sopra Warholm a Oslo, e tutti e tre sotto il record olimpico dello statunitense Kevin Young, 46″78, che resisteva da Barcellona 1992.
Sempre sui 400 ostacoli, ma femminili, ecco la statunitense Sydney McLaughlin che scende a 51’’46 dal suo stesso 51’’90, di ben 70 centesimi migliore del tempo dell’oro mondiale di Doha 2019, Dalilah Muhammad, che a sua volta in questa finale scende a 51”58, anche lei sotto il precedente limite mondiale. E, restando fra le donne, ancor più sensazione, anche se non ci sono stati record, hanno suscitato i 100 e 200 della giamaicana Elaine Thompson: 10”61 e 21”53, i migliori tempi fin dai tempi di Florence Griffith, che scese a 10”49 e 21”34 nel 1988, prima di morire misteriosamente nel sonno a soli 38 anni, forse per crisi epilettica. Della Thompson riparliamo subito dopo, per la sorpresa di questi mirabolanti risultati, per il momento ci soffermiamo su pista e scarpette.
Questi e altri risultati a Tokyo sono stati attribuiti principalmente alla pista, costruita da una ditta italiana, in grado di garantire una presa maggiore alle scarpe e quindi una altrettanto maggiore spinta, e alle nuove scarpe con piastra di carbonio più larga della pianta del piede, quindi più stabilità e presa sul terreno. In realtà, niente di nuovo sotto il sole, perché già in passato c’erano stati esempi del genere. Il più clamoroso risale al 1968. Il velocista statunitense John Carlos, prima dell’Olimpiade di Città del Messico (nella quale otterrà il bronzo dietro l’altro statunitense Tommie Smith e l’australiano Peter Norman) corre i 200 in 19”70 a Echo Summit, in altura, ma il tempo non viene convalidato perché gareggia con scarpe non regolamentari, con numero di chiodi superiore a quello autorizzato, quindi con maggiore presa sul terreno e più spinta. In questo articolo del giornalista Michael McKnight la storia di quel mancato record: https://www.si.com/track-and-field/2019/11/15/puma-shoe-upended-1968-olympics
Il record non fu omologato perché le scarpe di John Carlos avevano più chiodini di quanti ne fossero consentiti dalle regole: addirittura 68, in omaggio all’anno dell’Olimpiade messicana, contro i 24 delle scarpe di Tommie Smith. Quindi, la Iaaf stava bene attenta a non permettere deroghe di questo genere. Adesso, le cose sono cambiate e cambiamenti sempre più innaturali stanno predominando e vengono accettati, probabilmente per una corsa sfrenata ai record che possano attirare l’attenzione del pubblico su questo sport. E’ evidente, infatti, che ci si stia avvicinando sempre più ai limiti umani e i record diventano più difficili e più rari, perciò ecco la “droga” delle scarpe.
Sulla pista, però, le cose stavano diversamente anche nel 1968. Molti hanno ricordato, a proposito delle nuove scarpe usate a Tokyo, proprio il record non approvato di John Carlos. Ma hanno dimenticato l’altra novità di quell’anno: la pista in Tartan. A Città del Messico si corse per la prima volta su una pista fatta di questo materiale, in poliuretano, che dà una spinta maggiore e, in caso di pioggia, garantisce una tenuta superiore a quella delle precedenti piste, tanto da ridurre al minimo le differenze di prestazione con quelle asciutte. E il Tartan, al contrario delle scarpe di John Carlos, non provoca alcuna polemica. Il principio sostanziale, all’epoca, fu che le scarpe diverse da atleta ad atleta (con più o meno chiodini o altre soluzioni) possono costituire un vantaggio per uno a scapito dell’altro, la pista invece è uguale per tutti. Adesso, il modo di pensare è cambiato e vantaggi speciali per gli atleti sono sempre più il terreno di conquista delle aziende.
DOPING SEMPREVIVO
Dal doping tecnologico a quello classico il passo è brevissimo, fra protagonisti annunciati che sono stati tagliati fuori prima dei Giochi, atleti che risorgono improvvisamente, altri che continuano con le prestazioni e le frequentazioni sospette. Certo, la storia più paradossale è quella degli inglesi che accusano Jacobs di doping e poi si ritrovano proprio loro con un componente della staffetta 4×100, seconda dietro l’Italia, positivo a un controllo: Chijindu Ujah, con nel corpo tracce di ostarina, un anabolizzante. Ma il quadro è più complesso, anche se gli atleti positivi dell’atletica a Tokyo sono stati solo quattro. Oltre a Ujah, verificato dopo la fine dei Giochi, ce n’erano stati tre sospesi durante le gare: Sadik Mikhou (Bahrein), nei 1500 metri, per trasfusione di sangue; Benik Abramyan (Georgia), nel getto del peso, per metandienone e tamoxifene; Mark Otieno Odhiambo (Kenya), nei 100 metri, per metasterone.
I sospetti restano parecchi. Per un Coleman, il velocista statunitense oro ai Mondiali di Doha 2019 nei 100 metri, squalificato prima di Tokyo dopo averla scampata l’anno prima grazie a cavilli burocratici, ci sono altri che continuano a gareggiare sia pure con uno strascico di dubbi, come l’etiope naturalizzata olandese Sifan Hassan, che si allenava con Alberto Salazar, il coach squalificato per 4 anni per pratiche di doping. Un quadro più chiaro, non solo di Coleman e Hassan, lo si può avere rileggendo l’articolo che scrissi dopo i Mondiali 2019 a Doha: https://www.sportsenators.it/12/10/2019/assenza-o-mancata-registrazione-cosi-il-doping-la-fa-franca/
A Tokyo la Hassan ha vinto 5.000 e 10.000 ed è arrivata terza nei 1500, battuta dalla keniana Faith Kipyegon e dalla britannica Laura Miur, mostrando tutto il suo disappunto alla fine di questa gara. Il suo obbiettivo era la tripletta, dopo che a Doha aveva vinto 1500 e 10.000 senza gareggiare sui 5.000. Proprio la Muir a Doha aveva detto chiaramente che c’era una nube nera sulla Hassan. Finché non ci sarà un controllo che certifichi l’assunzione di doping, la Hassan ha diritto a essere considerata pulita, ma un’atleta che gareggia e vince medaglie dai 1500 ai 10.000 non è certo qualcosa di normale. E se è vero che le cinesi dell’Armata di Ma Junren erano considerate più che sospette, senza essere state trovate positive al doping, analoga considerazione si dovrebbe fare per la Hassan e non solo per lei, nell’ambito della gara dei 10.000.
Esemplare è la fulminea carriera dell’etiope Almaz Ayana, che in tre anni ha rivoluzionato i 10.000 e poi è scomparsa. Oro ai Mondiali di Pechino 2015 (più l’argento nei 5.000); oro a Rio 2016 battendo in solitaria il record della cinese Wang Junxia, vecchio di 23 anni, con un miglioramento di ben 14 secondi, in 29’17”45; oro ai Mondiali 2017 a Londra, ma con un tempo superiore di un minuto a quello di Rio, primi segnali di un decadimento improvviso; e poi fine della carriera. I tipici segnali di prestazioni dovute al doping, esplosioni improvvise seguite da periodi di crisi e poi da resurrezioni inaspettate o da ritiri inspiegabili (come per la Ayana), si rivedono anche nella giamaicana Elaine Thompson. Si rivela ai Mondiali 2015 a Pechino, argento nei 200 (in 21”66, dietro l’olandese Schippers in 21”63, anche lei con più di un’ombra) e oro nella 4×100, poi prende due ori a Rio 2016 nei 100 e 200, con tempi di rilievo soprattutto sui 100: 10”71 e 21”78. Dopodiché ha quattro anni di buio, giustificati da alcuni infortuni sì, ma non così gravi da impedirle di partecipare a due Mondiali, con risultati scarsi, e comunque non tali da durare quattro anni e fare comunque tempi da 10”98 (Londra 2017) e 10”93 (Doha 2019). Insomma, i veri infortuni gravi non ti permettono di partecipare e di ottenere quei tempi, anche se non sufficienti per arrivare a medaglie. Poi, a Tokyo, ecco la rinascita con tempi che si avvicinano sensibilmente a quelli della Griffith del 1988. Tutto questo non è normale.
Infine, un pensiero alla storia infinita delle recriminazioni di Alex Schwazer, sulla base di tempi non certificati, presunti tali da permettergli di superare i medagliati di Tokyo nella marcia, e ottenuti in misteriosi allenamenti. La risposta migliore a tutto questo l’ha data la bravissima Antonella Palmisano dopo la vittoria nella 20 km a Tokyo. Intervistata dal quotidiano “Repubblica” ha detto: “Ma lui per me è finito a Londra 2012”. E quando le hanno ricordato la vicenda della seconda squalifica e l’archiviazione da parte del Gip di Bolzano, che ritiene credibile l’alterazione dei campioni di urina di Schwazer, la Palmisano ha dato la botta definitiva: “Non mi interessa, è tempo di andare oltre, questa Olimpiade è stata mia e di Massimo Stano. Finalmente c’è uno sport pulito, medaglie pulite. Io firmo una carta etica, e la devo rispettare. Da un punto di vista umano posso perdonare, da un punto di vista sportivo lui per me è finito a Londra”. Della serie: non bastano le gambe per marciare, ci vogliono anche cervello e onestà, le doti che Palmisano e Stanno hanno messo in mostra non solo a Tokyo ma in tutta la loro carriera.
DECATHLON PER INTELLETTUALI
Ogni tanto, fra un discorso e l’altro, si possono ascoltare pareri di giornalisti ed esperti che parlano del Decathlon come della gara più interessante fra tutte quelle dell’atletica e si assiste ad autocelebrazioni del tipo “Noi sì che capiamo veramente l’atletica”, qualcosa come i salotti degli intellettuali avulsi dalla realtà che immaginano un mondo tanto intelligente e così terribilmente noioso. Mi permetto di astrarmi da questo mondo e dico che il Decathlon e l’Eptathlon sono prove che possono anche suscitare un po’ di interesse quando c’è una sfida all’ultimo punto fra due o tre atleti, ed è interesse solamente agonistico. Ma dal punto di vista tecnico tutto questo è improponibile, vedere un atleta che fa buone prestazioni in 2-3 gare del programma e arranca nelle altre è davvero deprimente. A mio sostegno cito le parole tratte dal libro edito nel 1968 dal Corriere dello Sport, intitolato “Un’Olimpiade da fantascienza”, scritto dagli inviati di quel quotidiano a Città del Messico. Ecco le righe dedicate al Decathlon:
“Il Decathlon rimane comunque una prova basata su nove gare, in cui i migliori conseguono risultati sempre di valore, talora eccellenti, ed in una, i 1500, in cui si tocca l’assoluta mediocrità. E chiamare un atleta completo uno che non ce la faccia a correre, ci sembra un po’ troppo!”
Appunto!
L’ORRORE DELLE STAFFETTE MISTE
A Tokyo c’è stato l’esordio delle staffette miste uomo-donna. Non meriterebbero nemmeno di essere menzionate se non per chiederne la soppressione. Se vogliamo divertirci a vedere il tira e molla fra le frazioni alternate di uomini e donne, è un conto, se vogliamo assegnare a queste gare un minimo di valenza tecnica, beh, per favore, non bestemmiamo. Purtroppo, il Comitato Olimpico Internazionale ha deciso di seguire una moda imposta da chissà chi e spingere per gare miste in più di uno sport, come se questo servisse a rimettere su un piano di parità uomini e donne. La parità non sta nella partecipazione alla stessa gara, nell’equiparazione di muscoli, perché questo è offensivo nei confronti delle donne. Ci sono gare ugualmente appassionanti a 2,04 nell’alto donne e a 2,37 nell’alto uomini, così come sfide ugualmente entusiasmanti a 3’28”32, 3’29”01 e 3’29”05 nei 1500 uomini e a 3’53”11, 3’54”50 e 3’55”86 nei 1500 donne, e sfide belle con tempi o misure minori rispetto a sfide noiose con tempi e misure maggiori. E’ mai possibile che si debba ricorrere a queste finzioni per celebrare una parità che deve essere di diritti umani e sportivi, non di muscoli e misure? Se gli ostacoli sono più bassi e gli attrezzi più leggeri per le donne, lo spettacolo rimane uguale nelle gare maschili e femminili ed è legato alla personalità dei protagonisti, alle sfide, al tentativo di andare oltre i limiti, allo sforzo all’ultimo millesimo di secondo e all’ultimo millimetro per vincere. Le gare miste vanno contro tutti questi principi dello sport. Finiamola con questa buffonata.
LA CORSA CHE UCCIDE
Negli ultimi anni la gara dei 400 metri, nelle parole dei telecronisti, dei commentatori e di presunti esperti soprattutto, un po’ meno negli articoli della carta stampata, viene chiamata “Il giro della morte”. E mica siamo alle giostre! Se si ha un po’ di rispetto per la storia dell’atletica sarebbe il caso di ricordare che questa definizione non è mai esistita e che fu inventata, una trentina di anni fa, da un telecronista che “orecchiava” le belle storie di questo sport e se ne uscì con questo strafalcione. In realtà, i 400 metri sono stati definiti “The killer sprint” e soprattutto “The killing race”. Quindi: “Lo sprint assassino” e la più classica “La gara che uccide”. E’ possibile chiedere un minimo di conoscenza storica di questo nobile sport ed evitare corbellerie del genere? Grazie.
ARIA CONDIZIONATA
Ultima nota per il clima in cui si sono svolte le gare di atletica a Tokyo. Caldo afoso e umidità insopportabile. Si è gridato allo scandalo per i Mondiali a Doha, ma sarebbe il caso di fare opportune precisazioni. E’ vero che le gare fuori dello stadio, marcia e maratona, a Doha non si sarebbero dovute fare. Si sono svolte a mezzanotte, nella speranza di un po’ meno calore, ma con temperature comunque superiori ai 30 gradi, quindi condizioni difficilissime e rischio di disidratazione, con molti atleti che collassavano. Ma dentro lo stadio, è bene dirlo con chiarezza, c’erano le migliori condizioni climatiche che si siano mai trovate in qualsiasi manifestazione di atletica e di ogni altro sport, per gli atleti e per il pubblico. Aria fresca, temperatura ideale, addirittura in qualche momento c’era bisogno di un maglioncino leggero sopra la t-shirt, niente umidità. Il tutto grazie al sistema di ventilazione che garantiva una copertura climatica non solo sulle tribune ma anche sul campo di gara. E’ chiaro che l’idea di Mondiali separati per pista e strada non è ancora accettabile, ma quando si parla delle condizioni terribili dei Mondiali di Doha si abbia il buon gusto di fornire una esatta rappresentazione di cosa sono stati e, quando ci si trova in condizioni pessime, per il pubblico e per gli atleti, come a Tokyo, si abbia almeno il buon gusto e l’onestà di riconoscerlo.
(parte terza – continua)