Brutta cosa l’invidia, vero? L’ultimo danno provocato da questo vizio capitale è che i Cleveland Cavaliers, l’unica squadra in grado di opporsi allo strapotere dei Golden State Warriors, anzi di strappar loro un titolo nelle tre finali consecutive disputate, perderà il suo secondo giocatore più importante, Kyre Irving. Dopo tre stagioni di convivenza con il numero uno, LeBron James, ha chiesto di essere ceduto, apparentemente senza altro motivo che la stanchezza di recitare un ruolo di secondo piano rispetto al Prescelto. In altre parole, Irving crede di essere forte come LeBron e di meritare una squadra in cui fare lui il LeBron. La questione, però, è meno semplice di quello che potrebbe apparire a prima vista perché Irving, probabilmente il più forte giocatore di uno contro uno attualmente nella Nba, non si è dovuto sacrificare nel suo lavoro, cioè in campo, per il fatto di giocare assieme a LeBron e Kevin Love. Nell’ultima stagione, come era già successo nei playoff del 2015, la prima scelta assoluta del draft del 2011, ha tentato più tiri del suo ingombrante compagno di squadra. Parliamo di un tiro in più o in meno, spesso solo qualche decimale di tiro, su un centinaio di partite a stagione. Nella finale vinta nel 2016, in gara 5 aveva realizzato esattamente 41 punti come LeBron, record per una coppia di giocatori, salvo poi essere l’uomo del tiro decisivo in gara-6. E nell’ultima sfida per il titolo con i Warriors ha tirato più volte di King James, qualche volta a sproposito, in tutte le gare meno che nell’ultima. Non si può quindi definire una situazione di sudditanza anche se probabilmente si sarebbe aspettato, dopo il titolo del 2016, che tutti si fossero buttati ai suoi piedi come fanno con LeBron. Non è accaduto, anche perché è evidente che sia James l’uomo che dà il passo emotivo e tecnico dei Cavs. Del resto è il migliore al mondo, qualcosa conterà.
LeBron è anche maturato come persona dai tempi infausti di The Decision, quando comunicò spettacolarmente di lasciare Cleveland per Miami, prima di tornarci nel 2014, il suo carisma è cresciuto con la maturità. Di fatto non ne ha sbagliata più una e ogni volta che apre la bocca, emette anche vibrazioni jordaniane. Irving, giocatore strepitoso, tutto questo non ce l’ha, anche perché ha solo 25 anni, quindi finché resta con James resterà sempre Robin con Batman e una situazione nella quale, evidentemente, non riesce a stare più dentro. E quella che Pat Riley definiva “desease of me”, letteralmente “malattia di me” che colpisce la gran parte di grandissimi giocatori. Anche se la storia racconta sempre che un campione, per quanto straordinario, non può vincere da solo, e neanche LeBron c’è riuscito fino a quando non è andato a Miami con Wade e Bosh, e che tutti i presunti sacrificati una volta liberi di spiccare il volo da soli, si sono schiantati, non c’è niente da fare, per molti giocatori è una malattia che non si può debellare. Perfino Kobe Bryant, quando ha preso in mano i Lakers dopo aver fatto fuori Jackson e Shaquille O’Neal, finì male per tre stagioni consecutive. Al termine delle quali chiese di essere ceduto perché la dirigenza non comprava dei rinforzi, dopo aver avuto la possibilità, che aveva portato a tre titoli consecutivi, di formare con Shaq probabilmente la coppia più forte della storia della pallacanestro. Perché il bello è questo: che Irving, chiedendo ufficialmente di essere ceduto indicando Minnesota, Phoenix, New York e San Antonio come destinazioni gradite, tra un po’ si lamenterà di non avere compagni abbastanza forti per vincere il titolo. Cioè chiederà ad altri di mettersi nella sua condizione attuale con LeBron che non sopporta più. Perché altre stelle dovrebbero allora accettare di essere sudditi di Irving?
Negli Stati Uniti questa richiesta di cessione ha ovviamente fatto rumore. E tutti come al solito si sono divisi tra chi pensa che Irving sia un montato e chi ritiene che sia impossibile convivere con la personalità di James, eccetera eccetera… Il risultato è che la squadra tre volte finalista nelle ultime tre stagioni, con James che la prossima estate diventa free agent e sarà difficilmente trattenibile ai Cavs, rischia di perdere la sua più giovane e prolifica stella, dopo un mercato che ha visto partire il g.m. e il mancato arrivo di giocatori in grado di bilanciare il gap esistente coi Warriors. Irving non ci fa un figurone, lasciando su un piatto d’argento la possibilità di giocare un’altra finale. Intanto la società si è tutelata ingaggiando il veterano Derrick Rose che, dopo l’infortunio clamoroso del 2012 e le ricadute che lo hanno condizionato fino al 2015, non è stato più davvero lui, anche se ha chiuso la scorsa stagione ai Knicks a 18 punti di media in una squadra allo sbando. Avere Rose nel tuo ruolo, come già accadde nel Mondiale del 2014, vuol dire comunque essere in competizione nella tua stessa squadra. Non bastasse LeBron. Mediaticamente questa uscita di Irving ha provocato danni paragonabili alla sua dichiarazione dello scorso inverno quando affermò, e poi ripetutamente confermò, che fosse inutile che i potenti del mondo e gli scienziati al servizio degli Stati volessero dettare la loro legge coprendo la verità delle cose alla gente. Lui non era fesso e l’aveva capito: la terra è piatta. Del resto, basta l’evidenza per dimostrare che noi camminiamo su un fondo dritto e non su una palla. Difficile avere poi la credibilità che uno ritiene di dover avere…
Di questa storia, la cosa più affascinante non è cosa accadrà ai Cavs che, ovviamente, sono fatti loro. Ma l’indole umana, soprattutto l’eterno dilemma dell’essere campioni in uno sport di squadra e la difficoltà, che ha radici profonde ma spesso sfocia in comportamenti puerili, di relazionarsi con gli altri, a meno che non si possano dominare cosa che, nella maggioranza dei casi, porta al disastro collettivo. E in questi giorni in cui è tornata al lavoro la Nazionale, con tante speranze per l’Europeo di settembre, penso a come la cosiddetta “Italia più forte di sempre”, perché finalmente al completo di tutti i nostri rappresentanti nella Nba, abbia recentemente fallito il suo obbiettivo non certo per contrasti tipo Irving-LeBron (avessimo noi un James che si prende in mano la squadra nel bene e nel male…) ma per la “malattia di me” che ha sicuramente colto qualche azzurro rendendolo meno performante e felice. Se per caso anche oggi qualcuno si sentisse un po’ così, facciamogli leggere questa storia. LeBron da solo non ha vinto, Irving da solo non avrebbe vinto (senza James, i suoi Cavs erano derelitti). Maturità significa superare l’invidia verso chi magari è più famoso, pompato e ricco di te accettando l’evidenza della sua qualità e l’inconfutabilità del fatto che nessuno è in grado di vincere senza compagni forti. L’unione fa sempre la forza. E la terra è rotonda, accidenti!
Luca Chiabotti